Metronomy – Love letters

I Metronomy sono sempre stati un piccolo paradosso, che quattro dischi (compreso Love letters) non hanno saputo sciogliere. Sono una band elettronica, ma senza “effetti speciali”, beat spaccaossa o groove trascinanti; sono una band chitarristica, ma con le chitarre sempre ben mimetizzate nel sottobosco di arrangiamenti minimali, che poco hanno di rock. Sono una band pop, ma non si può dire che i loro pezzi vivano per il ritornello. Tra l’altro, anche quando parlano d’amore (ovvero il tema da pop song classica), come in Love letters, lo fanno sempre sotto le insegne di un’ironia demistificatoria.

Non si prendono sul serio, i Metronomy? Sì e no. Non se la tirano, certo, ma neppure scherzano troppo con la loro arte, vista la qualità delle melodie e degli arrangiamenti. Love letters non fa eccezione neppure sotto questo profilo, e scodella un album difficile – nel senso di poco immediato – ma di gran fascino e ricco di pregi. Senza esagerare, ogni brano è una piccola sinfonia: dentro ci senti stili e spunti da cui potresti cavarci due-tre canzoni. The upsetter apre su un battito minimalista e su delle tastierine vintage, ma con l’ingresso della chitarra acustica si muove verso certe ballate di David Bowie. I’m acquarius racconta una storia d’amore vissuta sotto i presagi dell’oroscopo («You said our love was written in the stars / but I never paid attention to my charts»), contesa tra un organo malinconico, una pulsazione danzereccia e i coretti doo-wop.

Completa il trittico iniziale Monstrous che gioca tutta su un giro di synth dagli aromi latineggianti, mentre il primo singolo estratto, Love letters, è più sbrigliata, malgrado l’intro funerea: il pianoforte è martellante, il ritmo galoppa, e il sound anni ’70 è decisamente azzeccato, soprattutto se accostato al tono (volutamente) troppo melodrammatico del testo.

In generale, tutta la scaletta di Love letters riserva momenti deliziosi. Tipo l’arpeggio di synth di Reservoir (una storia di amicizia a sfondo “nautico”) o l’oscuro strumentale Boy racers, a metà tra la trilogia berlinese di Bowie, la colonna sonora sci-fi apocrifa e gli LCD Soundsystem. Call me è un bel saggio dell’approccio minimalista della band inglese, mentre Month of Sundays ammicca alla psichedelia anni ’60, ai Byrds.

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Tutto Love letter gioca sul filo dell’ironia, ma in maniera comunque sempre mai troppo scoperta, attento a modulare i toni in modo impercettibile. Capita però che la chiusura, Never wanted, scopra un po’ di più il lato malinconico della band: “Mini bar with many choices / bedside table / distant voices/ but it gets better”, canta Joseph Mounth, ma non sembra troppo convinto.

Love letter non è l’album della svolta dei Metronomy, prosegue nel solco dello splendido The English riviera. Lo fa non per pigrizia creativa, semplicemente perché la band non ha ancora smesso di esplorare le possibilità effettive del proprio sound. Un altro album così e diventano di maniera, ma per ora i Metronomy sono ancora imperdibili.

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