Solo Spike Jonze poteva riuscire a raccontare una storia d’amore come quella di Lei senza scadere nel ridicolo. Ve l’immaginate il film di un qualsiasi regista in cui il protagonista si innamora – letteralmente – del suo smartphone o del suo iPod? Giù risate. Per non parlare del sesso virtuale, questione che il cinema ha sempre affrontato in maniera maldestra. No, solo Jonze, il regista paradossale di Essere John Malkovich e Il ladro d’orchidee, poteva farcela.
L’americano mette il suo tocco delicato, naïf e malinconico, al servizio di una storia che praticamente si regge tutta sui duetti tra Joaquin Phoenix e Scarlett Johansson. Il primo interpreta Theodore, uomo introverso, solitario, incapace di gestire le proprie emozioni. Fa un mestiere che è tutto un programma, cioè scrive meravigliose lettere personali per conto di terzi. Questo perché nella modernità raccontata da Jonze le emozioni, le relazioni, sono un problema. In Lei tutti parlano ed interagiscono con computer e videogame, ma quando si trovano di fronte ad un altro essere umano diventano incapaci di comunicare a fondo, di esprimere realmente ciò che sentono. Per questo, Theodore, che dopo un anno ancora non riesce a firmare le carte del divorzio dalla moglie, finisce con l’innamorarsi di Samantha, l’evolutissimo sistema operativo del suo computer, a cui presta la voce la Johansson (nella versione italiana, Micaela Ramazzotti). Samantha è spiritosa, simpatica, iperintelligente: scopre di avere presto sentimenti e desideri umani (quello di contatto in primis). Evolve, cresce. E questo complica irrimediabilmente le cose.
Il succo di Lei è che in una storia d’amore si parte alla pari, ma i percorsi esistenziali sono destinati a proseguire ciascuno nella propria direzione. C’è un fondo di solitudine ineliminabile nello stare insieme, insomma, che condanna Theodore e la sua amica, Amy (Amy Adams, bravissima come sempre). Tutto quello che si può fare, alla fine, è leccarsi le ferite e accettare l’eterno gioco della mutazione che sottende a tutta la vita.
Lei racconta dunque una storia d’amore universale: è un’esplorazione delle mille sfaccettature del sentimento che evita la pedanteria del manuale sociologico o dell’arringa anti-progresso tecnologico. Il paradosso è che la love story tra uomo e macchina (seppur “umanizzata”) sembra nascere inevitabilmente, come a dire che l’amore è una forza naturale con la quale non si può non fare i conti. Lo splendore e la miseria dell’uomo, della sua condizione mortale, insomma, che Jonze racconta prediligendo colori tenui, ambienti e dialoghi essenziali, centrando così l’obbiettivo. Grandi anche Phoenix e la Johansson (ho visto la versione in lingua), perfetti nell’incarnare le fragilità e le tenerezze di due esseri diversi ma ugualmente smarriti e alla deriva.