Al momento, Mac DeMarco è probabilmente il massimo in fatto di estetica slacker applicata alla musica indie. Il 23enne songwriter canadese, però, non è un cialtrone qualunque con la chitarra elettrica: dietro le apparenze dimesse (sue e della sua musica), dietro le trame jangly della chitarra, i motivetti pop e i testi tra il romantico, il malinconico e il disincantato (con punte di sarcasmo), si nasconde un songwriter di primo pelo, di quelli che o ti fanno innamorare all’istante o respingi a vita.
Salad days, il secondo disco del musicista di Duncan, British Columbia, ha questo pregio straordinario: si lascia ascoltare che è una meraviglia. A prestarci attenzione, però, tra le pieghe dei brani scopri tutti i preziosismi di un’ispirazione che ha padri importanti – da Jonathan Richman agli Steely Dan, passando per Beatles e Orange Juice. Blue boy, ad esempio, gioca su pochi elementi: un basso bello rotondo, che pulsa pigro, un arpeggio ipnotico di chitarra, e un refrain che si snoda delicato, malinconico. Sembra facile, eppure è di quella facilità, di quella semplicità, difficili da perseguire: o ce le hai o non ce le hai. Brother, ad esempio, ha tinture soul e psichedeliche (Shuggie Otis è un altro amore dichiarato di DeMarco): sembra lineare, e invece nasconde un che di “stonato”, di straniato: sarà la chitarra pigolante e minimalista del ritornello, il fascino magnetico dell’incedere, versi che sanno di sconfitta come «You’re no better off living your life than dreaming at night». DeMarco di volta in volta evoca luoghi sonori conosciuti (nel caso di Brother l’assonanza è con i Beatles), ma riesce sempre a distanziarsene quel tanto che basta per generare una piccola vertigine di senso, che ti colpisce e ti intorpidisce piacevolmente.
Goodbye weekend ha un basso groovy e qualche aroma country, ancora grazie alla chitarra e alle sue note allungate che sanno di rinuncia, un po’ malinconiche e un po’ sfacciate. Let my baby say è un pezzo acustico, ricco di deliziose sfumature esotiche, mentre le sei corde di Treat her well riportano decisamente indietro, agli anni ’80. In entrambe (così come in Let her go) DeMarco evidenzia bene il suo lato più sentimentale, in modo ovviamente non stucchevole.
Gli Eighties fanno capolino anche nel syntpop di Chamber of reflection, giocato sui droni d’organo su cui poggia un beat pigro e qualche svolazzo di synth, che illuminano il pezzo ma non alleviano il peso della solitudine che vi si respira. Salad days termina con la strumentale Jonny’s odyssey e con DeMarco che ringrazia e saluta («Thanks for joining me, see you again soon, buh-bye»): è un commiato stralunato e sincero, in perfetto stile Mac DeMarco. Uno a cui non frega nulla dei dischi venduti o dei titoloni sulle webzine, ma che, volesse realmente fare sul serio, potrebbe fare piazza pulita di tanti rivali.