«Facciamo soffiare un vento caldo nel mondo dell’animazione giapponese!». Era il lontano 1985 e il giovane regista nipponico Hayao Miyazaki, recentemente salito agli onori della cronaca locale per il successo del film Nausicaä della Valle del vento, si rivolgeva così ai suoi colleghi disegnatori del neonato Studio Ghibli (nome che i piloti italiani diedero ad un vento proveniente dal Sahara, appunto), che il regista stesso aveva fondato con il collega Isao Takahata. Nessuno dei due poteva però immaginare che di lì a qualche anno quella “factory” sarebbe diventata uno degli studi di animazione più importanti del mondo. Negli anni seguirono infatti Laputa – Castello nel cielo (1986), Il mio vicino Totoro (1988), Kiki – Consegne a domicilio (1989), Porco Rosso (1992), ma il film della svolta artistica e commerciale dello studio (i film precedenti sono stati riscoperti e riapprezzati infatti in anni più recenti) arrivò nel 1997 con Principessa Mononoke.
3 anni di lavoro, 88.000 disegni fatti a mano personalmente da Miyazaki, 144.000 fogli totali, oltre 150 milioni di dollari di incasso nel solo Giappone, che ne fecero al tempo il film campione di incassi di sempre. Questi gli straordinari numeri del film, che però non bastano a spiegarne l’impatto che ha avuto nella storia del Giappone e del cinema tout court. Una pellicola che ha mostrato al mondo, e nello specifico al pubblico occidentale, che si potevano concepire i film d’animazione in modo totalmente diverso e che esisteva un gruppo di lavoro, parallelamente alla Pixar ma dall’altra parte del globo, capace di rivoluzionare le fondamenta stesse dell’immaginario filmico disneyano, che in quel periodo, per inciso, distribuiva prodotti come Hercules e Il gobbo di Notre-Dame, che per quanto fossero interessanti non brillavano certo di originalità.
Perchè accanto allo strabiliante lato visivo dell’opera, ciò che rende Principessa Mononoke un capolavoro (si, è il caso di dirlo) è soprattutto lo sviluppo narrativo: il viaggio di Ashitaka verso la guarigione e la scoperta di come sia l’uomo la causa stessa della rovina del pianeta e l’amore tra il ragazzo e San, “la principessa spettro”, come unica soluzione al male del mondo, non sono che due tra i tanti spunti del film. Nel mezzo ci sono i temi cari al regista, ovvero lo scontro tra uomo e natura, il ruolo centrale dei personaggi femminili, la sfiducia nel progresso tecnologico. E poi tutta la schiera di creature tratte dai miti giapponesi, il solito humour semplice e pungente e in più un inedito pessimismo che accompagna tutto il film: «Non ci può essere un lieto fine nello scontro tra gli dei della foresta e gli uomini» dice Miyazaki. Ed infatti quella finale è solo una tregua voluta dai due innamorati che “cercheranno di convivere in pace”. Come se Miyazaki avesse voluto mostrarci solo la strada. E se stesse a noi poi percorrerla.