The Black Keys – Turn blue

“Indie” forse non lo sono mai stati, i Black Keys. Troppo ruffiani, sin dalle prime battute era evidente come puntassero dritto al cuore delle classifiche (o ai Grammy). Obiettivi raggiunti entrambi con El camino (2011), che con hit come Lonely boy ha lanciato le quotazioni del duo composto da Patrick Carney e Dan Auerbach, al punto tale che quest’ultimo si è trovato di recente in studio con Lana Del Rey per produrle il suo nuovo LP.

Insomma, i Black Keys non sono (più) un affare per intenditori, nostalgici del blues-rock e del garage. Per questo stupisce un po’ un disco come Turn blue. Prodotto da Danger Mouse, è un album in cui la ricerca della ruffianata pop procede di pari passo con quella di un sound più stratificato e psichedelico. Insomma, avrebbero potuto rendersi le cose un po’ più facili, i due americani, e invece no: apre le danze Weight of love, sei minuti e cinquanta secondi all’insegna di una robusta jam session chitarristica, figlio degli anni ’70, intinto nei Pink Floyd e nel soul.

Roba come non se ne ascolta da un bel po’, soprattutto per l’approccio, sincero anche se (ovviamente) apocrifo (non siamo davvero negli anni ’70, e questo i due lo sanno bene). Il mood è nient’affatto solare, anzi. Un senso di smarrimento, di dolore, sembra prevalere nelle tracce, vedi la title-track: riff placido di chitarra, un basso ipnotico e minaccioso, l’elettronica sporca a far da tappezzeria, il brano apre con il verso «In the dead of the night I start to lose control / but I still carry the weight like I’ve always done before». Evidentemente, alla scrittura dei brani non è estraneo il recente divorzio di Auerbach dalla moglie – vedi Gotta get away («I searched far and wide hoping I was wrong / But maybe all the good women are gone», recita il refrain), che pure è uno dei pezzi più briosi, dall’aroma Stonesiano.

Ovviamente, non manca l’immediatezza che contraddistingue la scrittura del duo: In time e Year in review si muovono raffinate all’interno dei confini della black music più “catchy”. Ma il premio per la furbata del disco spetta senza dubbio a Fever: riffettino di tastiera, cantato in falsetto, handclapping sul ritornello e una sezione ritmica subdola sono gli ingredienti della ricetta. E se 10 lovers accentua la dimensione disco (con le stilettate acidule della tastiera che dispiega la melodia) e It’s up to you now sfodera la grinta del miglior blues-rock, In our prime si concede cambi di tempo e accenti beatlesiani (in effetti, anche pinkfloydiani), a dimostrazione ulteriore di come l’ispirazione alla base della scrittura del duo sia piuttosto varia.

Insomma, Turn blue non è un disco così immediato e facile come ci si potrebbe aspettare da una band di successo come i Black Keys. Ad ascoltare bene tra le pieghe del sound architettato con Danger Mouse, vien fuori il ritratto di una band desiderosa di battere nuove strade. Resta da capire se queste s’intrecciano in qualche punto con quelle che portano su in classifica…

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