Jack White – Lazaretto

Jack White è ufficialmente entrato in quella fase della sua vita artistica in cui un musicista smette di essere un semplice musicista e diventa un semidio. Se i White Stripes hanno dato al nostro la credibilità artistica prima e la fama poi, paradossalmente la consacrazione è arrivata dopo lo scioglimento del sodalizio con la moglie-sorella Meg White. Dopo Blunderbuss (2012), Jack White è diventato Jack White, ovvero uno che fa storia a sé: prima paragonavi la sua musica a quella degli altri, ora è lui l’altro, la pietra di paragone.

In quest’ottica, quasi passa in secondo piano il fatto che Lazaretto sia un ottimo disco. Certamente, non importa alla costruzione della leggenda che non sia un disco eccezionale. Le collaborazioni eccellenti (vedi Neil Young), il revivalismo intelligente della sua Third Man Records, le strepitose performance live, sono già tutti segnali dell’ingresso nell’empireo dei grandi, a cui il blues rock tinto di country, garage, folk e quant’altro di Lazaretto aggiunge semplicemente la proverbiale ciliegina.

Come in Bluderbuss, stupisce non tanto la varietà della scrittura di White, quanto piuttosto la sua capacità di filtrare decenni interi della storia del rock coagulandone gli elementi essenziali, gli stereotipi, in canzoni che per questo suonano classiche e moderne al tempo stesso. White è un tradizionalista (nel senso di cultore delle radici) eppure non disdegna degli scarti sorprendenti, ironici. La title-track, ad esempio, è un blues rock piuttosto groovy, funkeggiante, guidato da una chitarrona bella rugginosa e cantato con il tipico piglio isterico di White. Sul finale, però, l’assolo è degli archi: un’idea piccola, ma che offre una bella variazione sul solito tema.

Would you fight for my love, invece, è una veemente ballata arrangiata come se fosse uscita dalla colonna sonora di uno spaghetti western. E che dire di High ball stepper? È uno strumentale bluesy, condito da urletti isterici e un piano jazzato: più lo ascolti e meno lo riconosci, più ti sembra bizzarro. White è giustamente famoso per il suo chitarrismo ruvido, acidissimo, ma come in Blunderbuss aveva già dimostrato, è in grado di cavarsela a meraviglia anche nell’arrangiamento di altri strumenti, ed è sufficientemente poco egocentrico da lasciargli spazio. In That black bat licorice, che ha un bel flow rap, è per esempio ancora il violino, sul finale, rubare la scena alla chitarra, mentre Alone in my home è condotta da un brillante pianoforte dagli accenti Southern.

In Temporary ground, Entitlement e Want and Able emerge l’anima più tradizionalista di White, quella debitrice del country e della West Coast di Neil Young. L’interpretazione sempre un po’ sopra le righe, e i testi bizzarri, a tratti nonsense, rendono comunque queste tracce decisamente personali. White, insomma, suona solo come White: se questo è il massimo traguardo a cui un musicista dovrebbe ambire, Jack è decisamente arrivato.

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