I maligni la chiamano “Lagna” Del Rey, e un fondo di verità c’è: le canzoni di Lana Del Rey non sono esattamente un inno alla joie de vivre. Lei stessa, in una recente intervista, ha dichiarato che preferirebbe essere morta, piuttosto che continuare a fare musica (l’ironia viene facile, qui, vero?). E al di là del fatto che la si possa considerare una banale provocazione, è una dichiarazione che riassume alla perfezione il tedio esistenziale delle ballate della songwriter newyorkese. Che sono eleganti, certo, raffinate, intriganti grazie al mix di solitudine e sensualità che le contraddistingue, ma anche monotone, a volte sofferte persino in modo caricaturale.
Probabilmente, l’idea di entrare in studio con Dan Auerbach dei Black Keys doveva servire ad aggiungere qualche spezia in più al songwriting. In effetti, in Ultraviolence emergono qua e là il suono di chitarre riverberate e psichedeliche, in generale una maggiore ricchezza strumentale, persino un’approccio da jam session, ma la formula è rimasta sostanzialmente identica al passato. La Del Rey canta di prostitute, donne sottomesse e picchiate, amori impossibili, jazz e Brooklyn, con il solito tono – perché è quello che qui conta –, che nei momenti migliori è quello di una donna illanguidita dalla sconfitta, nel peggiore quello di una gatta morta.
Pretty when you cry: forse non c’è titolo che riassuma meglio Ultraviolence, un disco che ha il suo ideale di bellezza nel pianto, nella sofferenza. Particolarmente evidente in Shades of cool, con protagonista la solita eroina disperata, innamorata di un tossico con «l’attitudine jazz» che sa di non poter mai cambiare in meglio. Il brano si sviluppa lungo un delicato arpeggio di chitarra che conduce ad un refrain liricheggiante, paradisico. Colpiti e affondati. Perché Lana di classe ne ha, e certo non gli manca la capacità di costruire atmosfere avvolgenti con poco.
Il suo limite, però, è proprio questo. I brani sembrano trarre forza più dal mood, dagli arrangiamenti, dall’interpretazione sofisticata, che dalla loro ossatura. Soprattutto, presi singolarmente possono anche funzionare: West Coast, che è forse il brano in cui più si sente Auerbach, è indubbiamente un singolo intrigante, e così Brooklyn baby, Sad girl (in cui una prostituta si racconta tra fierezza, perversione e tristezza), Fucked my way up to the top, Cruel world (sei minuti e quaranta di West Coast sound dilatato) e la nenia melodrammatica di The other woman. Il punto, però, è che messe in fila una dopo l’altra, ascoltate all’intero di un album lungo oltre 51 minuti, le canzoni finiscono con l’appiattirsi sui cliché di un pop-jazz-soul barocco e sognante, risultando troppo omogenee (leggi: tutte uguali).
A Lana manca la varietà perché l’aggiunta della “g” nel nome sia solo una malignità. Ai fan, Ultraviolence piacerà tantissimo, forse persino più del predecessore, Ready to die (aridaje con la joie de vivre). A tutti gli altri, invece, dopo l’ascolto verrà una voglia irrefrenabile di Festivalbar, estati al mare e Boldi & De Sica.