Avete presente Un posto al sole, quel film dove Montgomery Clift s’innamora di Elizabeth Taylor, ma per stare con lei deve prima ammazzare Shelley Winters, che veste i panni di una donna che lui ha messo incinta? Per farlo sceglie di annegarla durante una gita in barca, una scena che anni dopo Nabokov inserirà nel suo Lolita, quando Humbert Humbert progetta di uccidere la moglie proprio affogandola (Charlotte Haze morirà, invece, investita da un’auto).
L’incipit di Aurora, capolavoro muto del ’27 di Murnau, parte all’incirca così. C’è un contadino che vive con la famiglia in una piccola fattoria: la sua esistenza scorre tranquilla finché non s’invaghisce di una donna di città, che lo istiga ad uccidere la consorte per ricominciare una nuova vita con lei. Ma il protagonista di Murnau è un uomo di buon cuore e non se la sente di far del male alla moglie, anzi, dopo il tradimento riscopre l’amore per lei e sceglie di tornare ad essere un marito e un padre affettuoso. Naturalmente il lieto fine non è né scontato né così semplice e per la coppia ci saranno ancora delle avversità da affrontare.
Primo film di Murnau girato ad Hollywood, Aurora è uno dei suoi più grandi capolavori, oltre ad aver vinto, alla prima edizione degli Oscar, le statuette per il miglior film e la migliore produzione artistica (quest’ultima categoria verrà in seguito abolita e inglobata in quella per il miglior film). Nel ruolo della moglie troviamo Janet Gaynor, che quell’anno era protagonista anche di Settimo cielo e L’angelo della strada: la Gaynor vinse la statuetta come migliore attrice protagonista per tutte e tre le pellicole (una curiosità: sapete che, negli anni Trenta, Walt Disney si è ispirato a lei per le fattezze della sua Biancaneve?). Altro nome che vale la pena citare è quello dell’amante, la sensuale Margaret Livingston, protagonista nel ’24 di un caso di cronaca alquanto particolare, che ispirò nel 2001 a Peter Bogdanovich Hollywood Confidential: l’attrice era presente alla festa in cui trovò la morte il ricco produttore Thomas H. Ince, deceduto ufficialmente per un attacco di cuore, anche se si vociferò a lungo che ad ucciderlo per errore sarebbe stato Hearst, famosissimo editore (quello impietosamente ritratto in Quarto potere di Orson Welles), il cui vero bersaglio pare fosse Charlie Chaplin (anche lui ospite al party), a causa di una sospetta relazione di quest’ultimo con Marion Davies, a cui Hearst era legato. Insomma, un cast chiacchieratissimo e stellare che regge perfettamente il dramma messo in scena da Murnau, senza trasformarlo in un melò stucchevole. Pur essendo una sorta di pellicola sentimentale, luci, ombre e musiche suggeriscono più una tragedia, quella che puntualmente si compie quando la passione offusca la ragione. In questo caso, però, l’amore finisce per trionfare e, come suggerisce il titolo stesso del film, l’aurora è il preludio di un nuovo giorno, dov’è possibile voltare pagina e ricominciare daccapo.
Murnau giunse in USA dopo i successi strepitosi in patria, firmando un contratto con la 20th Century Fox che, però, non diede i frutti sperati: dopo Aurora, il successivo I quattro diavoli risulta oggi addirittura irrimediabilmente perduto e pure Il nostro pane quotidiano fu un insuccesso. Murnau morì subito dopo, in un incidente automobilistico che diede vita a uno scandalo, perché pare che poco prima della tragedia stesse amoreggiando con il conducente della vettura, un quattordicenne filippino. Più che un’aurora, quello del grande regista è stato purtroppo un amaro tramonto.