Lo chiamavano “New Acoustic Movement”, ma è stato un fenomeno effimero e contradditorio, dentro c’era di tutto e poco di quello che c’era ha resistito al tempo e alle promesse iniziali. David Gray è di quelli che l’ha scampata, soprattutto per merito di quel gioiello che era White ladder, 1998, a tutt’oggi una piccola perla nel vasto mare del pop inglese. Pop, sì: Gray partiva dal folk, dai songwriter (quelli passionali, stile Van Morrison), e non lesinava sull’elettronica, ma Sail away, Babylon e This year’s love, tanto per citare gli highlights dell’LP, avevano soprattutto un appeal da pop song d’alta scuola.
Poi, però, Gray, forse schiacciato dal successo (artistico e commerciale) di quel disco, s’è un po’ perso. Mutineers arriva a quattro anni di distanza dal non memorabile Foundling, e soffre dei suoi stessi limiti: eleganza e innegabile perizia tecnico-compositiva al servizio, però, di un approccio che sembra aver smarrito brillantezza, la stessa che, pur se ad intermittenza, animava A new day at midnight (2002) e Life in slow motion (2005). L’idea era un po’ quella del ritorno alle origini, “ammutinarsi” (come suggerisce il titolo) dai cliché e dai metodi degli ultimi anni per ritrovare se stesso. Non è un caso quindi che le nuove canzoni, complice il lavoro con il produttore e co-autore Andy Barlow (Lamb), si nutrano di arpeggi acustici e beat sintetici (Back in the world) o cerchino un’idea nuova di groove r&b (Girl like you), magari rischiando qualche volta di smarrirsi (Last summer).
Però, forse il problema siamo noi, che dall’ascolto pretendiamo che spunti sempre la This year’s love o la Babylon di turno. In fin dei conti, Mutineers è un buon album, anche se le progressioni marziali e in crescendo di As the crow flies e della title-track, o il tono più soffuso di Back in the world (che è posta in apertura in modo programmatico) sono esattamente quello che ti aspetti da Gray. Stesso discorso per Birds of the high Arctic, piano e violoncello in bella evidenza e la solita interpretazione passionale e indolenzita a ricordarci che, anche quando ti ammutini – da te stesso, dal mondo – non riesci a disfarti di tutto il tuo bagaglio di dolore.
Mutineers chiude sul paesaggio metafisico di Gulls, una ballata a base di tenui ricami di synth e chitarre, ed armonie vocali à la Fleet Foxes, che esemplifica bene il David Gray di oggi: potenziale notevole, svolgimento a tratti carente. Ad ogni modo, la cura a base di Barlow ha prodotto frutti interessanti: per il futuro, è lecito aspettarsi anche di meglio.