Cesare ci guarda. E allo stesso tempo noi guardiamo lui. Basterebbe il primo fotogramma del film a farci capire che ancora una volta il punto di vista adottato, la prospettiva con la quale immedesimarsi corrisponde con la scimmia a capo dell’esercito dei primati. E non potrebbe essere altrimenti. Perchè Cesare, interpretato da Andy Serkis (prima o poi dovranno inventare qualche premio apposito per il maestro della motion capture), è senza dubbio il personaggio più complesso, più carismatico e più imponente di Apes Revolution – Il pianeta delle scimmie.
Dieci anni dopo la rivolta di San Francisco, ed in seguito alla diffusione del virus T-113 che ha ridotto la popolazione mondiale a sparute comunità, le scimmie hanno costruito una colonia nella vicina foresta di Muir Woods. La pace tra le due razze viene interrotta quando un gruppo di uomini guidato da Malcolm (Jason Clarke), in cerca di una fonte di energia si imbatte nelle colonia. Cesare decide tuttavia di aiutare gli umani ma quello che non sa è che farebbe bene a guardarsi le spalle.
I primi 20-25 minuti del film sono un vero e proprio omaggio al mondo delle scimmie e alle loro dinamiche sociali e culturali, quasi fosse un documentario di Discovery Channel. Perchè lo diciamo subito, il vero punto di forza del film sono gli effetti speciali della Weta, che qui raggiungono vette mai esplorate per dinamismo e verosimiglianza. Poi però arrivano gli uomini a rovinare tutto. E quello che poteva essere un film veramente originale, costruito intorno alla prospettiva animale, si deve arrendere alle dinamiche hollywoodiane che impongono in questo caso degli inconsistenti protagonisti umani e un parallelismo tra le due razze che non raggiunge mai per intensità quello di L’alba del pianeta della scimmie. Nel precedente film infatti dopo una prima parte umanocentrica si arrivava inesorabilmente a tifare per le scimmie. Qui invece, complice una sceneggiatura semplicistica (netta divisione tra buoni e cattivi) didascalica (la trama è spiegata forzatamente attraverso lunghi dialoghi inseriti per necessità) e superficiale (il personaggio di Gary Oldman praticamente non c’è), si tenta di instaurare una corrispondenza tra le scimmie e gli uomini con il risultato di non approfondire nessuno dei due.
Eppure i contenuti nel film ci sarebbero anche. Poche volte infatti ci siamo trovati a ragionare in un blockbuster su temi come la razza, il pregiudizio, la leadership, la sopravvivenza, le cause del perdurare di un conflitto (argomento attuale se ce n’è uno). Poi però tutto si sgonfia sotto il peso di una sceneggiatura prevedibile che ha l’unico merito di preparare il campo all’attesissimo terzo capitolo che sarà diretto ancora una volta da Matt Reeves. Ma, infondo, c’era da aspettarselo da un film che non è altro che il sequel del prequel del secondo reboot della saga.