La musica dei Blonde Redhead è probabilmente tra le cose più inafferrabili che ci siano in circolazione. Nel corso degli ultimi vent’anni, le tessiture strumentali architettate dai fratelli Pace con la complicità di Kazu Makino, essenziali in un modo ossessivo prima ancora che minimalista, hanno flirtato con diecimila generi (la no-wave, lo shoegaze, il post-rock, il pop) senza abbracciarne mai del tutto nessuno. Il paradosso è che questo, nel caso della band italo-giapponese, si è tradotto in un songwriting estremamente personale, fatto di stratificazioni subdole, intriganti commistioni di suoni elettronici ed elettrici e melodie malinconiche.
Barragán continua lungo il sentiero imboccato, nel 2000, con Melody of certain damaged lemons, il quale, rispetto ai predecessori (su tutti il notevole In an expression of the inexpressible, di appena due anni prima), si contraddistingueva per partiture più morbide e sognanti (non a caso dopo la band firmò un contratto con la 4AD). Il nome del nuovo album è ispirato a Luis Ramiro Barragán Morfín, grande architetto messicano, il cui stile era caratterizzato da contrasti cromatici e muri tagliati che, tuttavia, erano stemperati da un’atmosfera complessiva quasi surreale (e decisamente mediterranea). Messa così, è il perfetto riassunto dello stile della band – anche dal punto di vista del background, dato che il nuovo disco è stato concepito in Italia e registrato negli USA, in Michigan, in uno scenario desertico.
La title-track apre l’album sulle note di una placida linea di flauto, che danza su una sequenza in picking di chitarra acustica. Lady M, invece, sembra quasi imprimersi nelle orecchie grazie a beat rotondi, con la voce della Makino circondata da morbidi sciami di chitarre elettriche. È evidente come il gusto per la melodia sottostia a tutte le partiture, per esempio Dripping (un bel ballabile sintetico) e la più leziosa Cat on tin roof, che è un piccolo gioiello di arrangiamento, con un fraseggio di basso minimalista ed un accenno di chitarra psichedelica. In Barragán, tuttavia, non manca una vena sperimentale, che si concretizza (in modo non troppo organico, forse) in Defeatist anthem (Harry & I), un collage di sei minuti che spazia dal pop più drammatico al folk ai field recordings.
Decisamente più equilibrati gli otto minuti di Mind to be had, una specie di Kraut-pop cinematico ed evocativo, mentre Seven two chiude, all’opposto, su un deliquio chitarristico pieno di echi eterei. Per certi versi all’opposto, insomma, delle impennate di No more honey, con la sei corde capace di cullare il refrain in modo decisamente minaccioso.
Barragán è un disco stratificato e complesso, ma in un modo tutto suo. È un album di melodie, ma anche di atmosfere e arrangiamenti, cesellati con cura tale che, a volte, l’impressione che l’arrosto sia meno del fumo un po’ c’è. L’intelligenza dell’insieme, però, è fuori discussione, così come il fascino: ad avercene, di band così.