Il loro album di debutto si chiamava An awesome wave, “un’onda meravigliosa”, e il perché è chiaro solo adesso: perché, come ogni onda, la musica degli Alt-J nasce e cresce e si consuma eternamente uguale a se stessa eppure sempre diversa. È questa la sensazione che si prova ascoltando This is all yours. Dentro ci trovi tutti gli ingredienti che hanno decretato il successo del predecessore, quattro anni fa: il sound stratificato e sintetico, le armonie vocali, le radici brit mediate da uno spettro d’influenze che va dal soul al folk alla musica afro. Malgrado tutto, l’effetto non è di deja vù, anzi: il retrogusto persistente che lasciano le tracce è semmai quello di una libertà dagli schemi ancora maggiore rispetto al debutto e di una complessità che ha pochi eguali nella musica pop attuale.
In questo senso va letta l’idea di ambientare ben tre tracce (l’Intro, Arrival in Nara e Leaving Nara) in una città (giapponese) nella quale i cervi se ne vanno tranquillamente a spasso nel parco: è un’allegoria che sottolinea il clima di libertà creativa e di “naturalezza” in cui è nato il disco. Malgrado l’uscita dalla formazione del bassista Gwil Sainsbury, la band ha cercato di «ricreare l’ambiente in cui abbiamo scritto il primo disco, una situazione in cui i membri del gruppo erano seduti nello spazio confortevole di un appartamento – ha spiegato il tastierista Gus Unger-Hamilton -, provando piacere dalla compagnia e scambiando idee». «Volevamo fare musica divertendoci. Ci abbiamo provato anche stavolta per ottenere il miglior risultato», ha confessato il musicista.
This is all yours non è un disco perfetto, soprattutto per qualche lungaggine (nella seconda parte, perde un po’ di mordente). Però somiglia a certi manufatti artigianali, magari perfettibili ma talmente tanto ricchi di ingegno e sorprendenti da non farne rimpiangere la versione industriale. Qua e là, emerge la matrice “brit” della scrittura: in Arrival in Nara, ad esempio, un valzer condotto da qualche rintocco di chitarra e da un piano che, lentamente, cresce, abbozza una linea melodica e si salda con un’orchestrazione appena accennata, con il falsetto a conferire al tutto un’aura di bellezza sacra. Sulla stessa falsariga Choice kingdom, eterea come dei Sigur Rós albionici (nel pezzo si cita anche Rule Britannia!) ma dall’animo più folk. Hunger of the pine propone invece una rivisitazione interessante del trip-hop, introdotta da una pulsazione elettronica minimale (anche qui, l’effetto è di un’onda che cresce lenta e inesorabile).
Gli Alt-J saccheggiano dunque a piene mani la storia del pop, in senso sincronico e diacronico, non dimenticando ovviamente di guardare agli USA: l’r&b di Left hand free, con il suo gusto Sixties, richiama lo stile dei Black Keys. Accattivante, ma più interessanti sono gli Alt-J di Nara, che giocano con pattern ritmici sfuggenti (come i loro testi) e stratificano in modo geometrico ma non freddo chitarre e tastiere. O quelli di The gospel of John Hurt o di Bloodflood pt II, capaci di dar vita a paesaggi cinematici con tavolozze ricche di tonalità disparate, dall’hip-hop all’avanguardia elettronica alla musica classica ai pattern ritmici tribali.
Fosse stato un pizzico più breve (tredici tracce più una bonus sono troppe), This is all yours sarebbe stato un centro perfetto. Il disco non va comunque troppo lontano dal bersaglio e lascia la sensazione di un percorso di crescita appena iniziato per la band britannica. L'”onda meravigliosa” è ancora lunga a infrangersi.