Julian Casablancas + The Voidz – Tyranny

È il caso di aggiornare i dizionari alla voce “weird”: al posto della definizione, basterebbe una foto della copertina di Tyranny, il nuovo album di Julian Casablancas. Un disco “solista”, dove con questa parola si intende dire che è nato fuori dagli Strokes, la prima famiglia musicale del nostro, ma che in effetti è stato inciso con tanto di band, i Voidz. Jeramy “Beardo” Gritter, Amir Yaghmai, Jacob “Jake” Bercovici, Alex Carapetis e Jeff Kite sono più grossolani e volgari (si parla di sound) rispetto agli indiesnob Albert Hammond Jr., Nick Valensi, Nikolai Fraiture e Fabrizio Moretti. Diverso sembra anche il rapporto tra loro: Casablancas ha descritto i Voidz come un gruppo di brutti ceffi uniti da un sentimento di fratellanza che sembra più viscerale e immediato rispetto a quello che regna negli Strokes (“Damn, I would not cross these guys – There at night in an alley. […] We take care of each other, we are brothers”).

Insomma, i Voidz sembrano il veicolo perfetto per permettere al genio kitsch di Casablancas di manifestarsi appieno. Tyranny, la prima prova, prende il garage post-punk degli Strokes e vi inietta dosi robuste di weirdness, di “stranezze”, sotto forma di percussioni afro, spunti heavy-metal, tastierine classicheggianti, campionamenti da videogame anni ’80 e assoli sgraziati. L’estetica è lo-fi, underground, horror: basta vedere il trailer del disco, con la sua grafica sgranata, da VHS, o gli effetti splatter della clip di Where no eagles fly, per rendersene conto. Se la sostanza di tanto in tanto latita, perché Tyranny si fa prendere un po’ troppo la mano dal suo gusto per l’eccesso, il divertimento è assicurato. Il surf-rock di Cruch punch, condotto da un riff sintetico e con un tipico refrain strokesiano, è un buon esempio del clima di follia incipiente che caratterizza tutto il disco, che in M.Utually A.Ssured D.Estruction si tinge persino di elementi trash-doom e in Father electricity di riferimenti esotici, un po’ come gli Arcade Fire di Afterlife ma suonati da una qualche oscura garage band degli anni ’60.

In Where no eagles fly è l’hip hop il trastullo, con il flow di Casablancas che poggia su un basso post-punk e sfocia in un ritornello tesissimo, raggiunto in grinta da Johan Von Bronx (in cui riecheggiano gli Strokes di First impressions of Earth). Per contro, brani come Take me in your army e Xerox, più sintetici, puntano su atmosfere gelide e inquiete. Human sadness è un po’ un punto di incontro, una ballata pop (molto strokesiana pure questa) dilatata fino a undici minuti e sfregiata da chitarre acidissime e teatrali fino al parossismo, da campionamenti di un vecchio Nintendo (citato anche in un’altra traccia, Blood Nintendo) e da un mood isterico.

È l’apice sperimentale di Tyranny, che suona come un sinistro e tormentato soliloquio. Completamente autoreferenziale, ma anche decisamente affascinante. Casablancas ormai suona come solo se stesso: tre note, e lo riconosci subito. Il che è tutto: probabilmente non c’è niente che attesti la grandezza di un musicista più che la sua capacità di ricavare una poetica immediatamente riconoscibile dalle sue ossessioni.

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