Stefano Tummolini: giovani insicuri, il futuro e Un’estate fa

Una volta finito di leggere, Un’estate fa ti lascia quel certo grado di insoddisfazione per una vicenda che non riesci a comprendere fino in fondo, perché non riesci a comprendere i personaggi, le loro azioni. Così, a disagio e spossato, capisci che il racconto funziona, e che avresti voglia di parlare con l’autore, Stefano Tummolini, delle vicende giudiziarie su cui è costruita la vicenda, dell’insoddisfazione dei giovani d’oggi, della contrapposizione tra valori e leggi del “branco”, del rapporto tra cinema e letteratura. Quella voglia l’abbiamo soddisfatta con questa intervista, che è un modo per appagare curiosità ed entrare dritti dentro un libro, decidendo da che parte schierarsi.

 

Caro Stefano, il tuo libro non è propriamente un noir, neanche un thriller. Come definiresti il tuo lavoro se dovessi descriverlo?

E’ una specie di romanzo giudiziario costruito su fonti eterogenee (verbali della polizia, articoli di giornale, intercettazioni telefoniche ecc.) ma soprattutto su una serie di testimonianze dirette che sono a metà fra la deposizione e il soliloquio. Sullo sfondo c’è un evento che potremmo definire “di cronaca” – la scomparsa di un ragazzo – che però acquista significati più complessi a seconda di chi lo racconta. I testimoni – quasi tutti molto giovani –  ricostruiscono l’accaduto dando ognuno la propria versione dei fatti, ed entrando spesso in contraddizione: così alla fine sta al lettore decidere da che parte schierarsi, e cercare di ricostruire la verità.

L’ho definita una storia di oggi, in cui i personaggi sembrano rappresentare valori e modelli attuali. E’ così? Che rapporto hai coi giovani e che cosa consiglieresti loro?

Io frequento spesso i ragazzi, anche perché lavoro come insegnante. Ne ho conosciuti tanti e devo dire che in genere sono migliori dei protagonisti di Un’estate fa. Molti però guardano con apprensione al futuro: e quanto più sono insicuri, tanto più si chiudono in se stessi. L’egocentrismo è una specie di rifugio. Questo ovviamente dipende dall’aberrazione di certi modelli culturali, dalla deriva sociale e politica, ma anche dall’inadeguatezza della famiglia – che nel tentativo di proteggerli li mantiene in una bolla di vetro, assecondandoli e garantendogli impunità. L’auto-affermazione, per alcuni di loro, diventa quasi un imperativo categorico. E poiché il livello di aspettativa è altissimo, da un lato si sentono inadeguati, e dall’altro sono incontentabili. Niente e nessuno sembra in grado di soddisfarli. Per questo a volte diventano sprezzanti, anche spietati.

Alla fine, però, sembrano non esserci vincitori ma solo perdenti. Come se le dinamiche del gruppo avessero la meglio sull’aspetto personale. Volevi anche mettere in guardia sulla pericolosità del “branco” e delle sue regole?

I protagonisti del romanzo, oltre che di se stessi, sono vittime delle circostanze. Ad un certo punto la situazione precipita, e dato che la ragione reagisce più lentamente dell’istinto, la dinamica del branco ha la meglio. E’ difficile mantenere il controllo davanti alle emergenze, specie quando si è così giovani. Ma c’è sempre la possibilità di una scelta. Questi ragazzi scelgono di non assumersi le loro responsabilità, e quindi si rendono colpevoli.

(Stefano Tummolini tra cinema e letteratura)

Racconti la vicenda a più voci, e questo aiuta il percorso di scoperta passo dopo passo. Come hai avuto l’idea di scrivere una storia così e proprio con questo stile?

Avevo tradotto per Fazi un romanzo di Wilkie Collins intitolato La donna in bianco, che aveva questa struttura, e ho sempre amato Rashomon di Kurosawa. E poi sentivo il bisogno di far parlare i personaggi in prima persona, senza la mediazione di un narratore. Mi piaceva l’idea di creare vari punti di vista, con altrettanti linguaggi diversi. Era una sfida. Infine il racconto a più voci mi permetteva di restituire un quadro più complesso e misterioso della realtà.

Scrivi anche per il cinema, quindi ti chiedo quanto è diverso scrivere un romanzo da scrivere una sceneggiatura?

La sceneggiatura è uno strumento, ha valore solo nella misura in cui riesce a tradursi in immagini. E’ pensata apposta per essere smembrata dall’aiuto regista, quando viene fatto lo spoglio per il piano di lavorazione. Non c’è niente di più inutile, e triste, di una bella sceneggiatura rimasta in un cassetto. Alcune fasi della scrittura, ovviamente, sono analoghe a quelle di un romanzo: penso alla costruzione dei caratteri, all’intreccio, ai dialoghi. Ma per uno sceneggiatore la parola e la sintassi non hanno valore in sé: devono solo essere chiare e funzionali. Di conseguenza anche lo stile si definisce secondo parametri diversi. E poi uno sceneggiatore ha meno libertà creativa rispetto ad un romanziere: deve rendere conto al regista, al produttore, alle “star”, eccetera. Difficilmente ha l’ultima parola sul suo lavoro, a meno che non abbia raggiunto fama e prestigio.  Certo, anche uno scrittore deve cimentarsi con gli editori – e con gli editor: ma è più semplice, perché ci sono meno interessi in campo.

Sei anche regista, Un altro pianeta è stato un lungometraggio di successo e nel 2009 sei stato candidato al Nastro d’Argento come miglior regista esordiente. Cosa puoi dirci di questa esperienza e del tuo rapporto con il cinema?

Il cinema è la mia passione. Quando riesco a portare a termine un film, breve o lungo che sia, mi sembra di aver compiuto un miracolo. Certe volte, durante le riprese, mi capita di guardarmi intorno e chiedermi: possibile che tutte queste persone stiano lavorando per realizzare una mia idea? Sono proprio un uomo fortunato! D’altra parte, dirigere un film comporta anche delle grandi responsabilità. Per quanto il cinema sia un lavoro di squadra, alla fine tutto dipende dal regista. Per me il set è sempre fonte di fatica e di stress, e anche se mi diverto  – soprattutto quando ho a che fare con gli attori – in genere non vedo l’ora di portarmi a casa il materiale, e ritrovare la serenità nel silenzio di una sala di montaggio.

Un’estate fa è poi diventato un film (L’estate sta finendo). Qual è la sensazione di vedere una propria storia trasferita sul grande schermo? E quali i rischi?

In realtà il film è nato prima del libro. L’estate sta finendo racconta le vicende di un gruppo di ragazzi durante un tragico week-end al mare, mentre Un’estate fa è la cronaca delle indagini aperte dalla polizia dopo il loro rientro a Roma. L’idea di realizzare un romanzo non è stata mia ma di Elido Fazi, che è anche il produttore associato del film. Solo che invece di rielaborare in forma letteraria la sceneggiatura, io ho preferito immaginarne il seguito. L’estate sta finendo e Un’estate fa sono autonomi e complementari: si può vedere il film senza leggere il romanzo e leggere il romanzo senza aver visto il film, ma si ha un quadro completo della vicenda, dei personaggi e del loro mondo, solo dopo aver visto e letto entrambi.

E nei tuoi progetti futuri, cinema e letteratura continueranno ad andare avanti insieme?

Sto lavorando ad un adattamento dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore. E’ l’unico romanzo in cui Pirandello si è occupato di cinema, in modo essenzialmente critico – descrivendo la macchina da presa come un ragno meccanico che si ciba dell’anima degli uomini. Mi interessava capire cosa resta di quelle riflessioni, oggi che il cinema sembra surclassato da altre forme di spettacolo: vorrei descrivere come i rapporti tra le persone – anche quelli più intimi e privati – sono profondamente condizionati dai mezzi di comunicazione.

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Posted by Donato Bevilacqua

Proprietario e Direttore editoriale de La Bottega di Hamlin, lettore per passione e per scelta. Dopo una Laurea in Comunicazione Multimediale e un Master in Progettazione ed Organizzazione di eventi culturali, negli ultimi anni ho collaborato con importanti società di informazione e promozione del territorio. Mi occupo di redazione, contenuti e progettazione per Enti, Associazioni ed Organizzazioni, e svolgo attività di Content Manager.