Anton Corbijn – La spia – A most wanted man

Potremmo stare qui ad analizzare i pregi di una spy story atipica, l’atmosfera plumbea e rarefatta delle location, una fotografia sbiadita sinonimo dell’esistenze precarie dei protagonisti e le mancanze di una sceneggiatura fin troppo “parlata”, ma tutto si ricollegherebbe ad un’unica grande verità: La spia – A most wanted man è essenzialmente Philip Seymour Hoffman.

 

Impossibile infatti per lo spettatore non emozionarsi per quella che è l’ultima interpretazione dell’attore americano e soprattutto non ricollegare la dolente parabola del personaggio a quella dell’uomo. Il terzo lungometraggio di Anton Corbijn ha al centro della vicenda Gunter Bachmann, capo di una piccola unità antiterroristica di stanza ad Amburgo, città da sempre aperta alle culture diverse ma che dopo l’11 Settembre ha invece cominciato a sviluppare una generale diffidenza verso gli stranieri. Quando in città arriverà un ceceno Issa Karpov (Grigoriy Dobrygin), Bachmann scoprirà una fitta rete terroristica che da lui arriva fino ai piani alti. Ma purtroppo la sua tattica di prendere un “barracuda per arrivare ad uno squalo” verrà messa in crisi da un sistema che privilegia invece i risultati immediati.

 

 

Malinconico, indolensito, dimesso, sommerso dal fumo delle sue sigarette, il protagonista del film (e l’attore con lui) si aggira per le grigie strade della città tedesca, deciso a non farsi mettere i piedi in testa per l’ennesima volta. Ma nel suo volto, nei suoi gesti, nelle sue parole, sembra esserci già scritto sempre lo stesso finale, lo stesso destino. Non la vediamo la sofferenza di Bachmann, ma la sentiamo, la proviamo. Ed è questa la vera forza di un film che fa dell’antispettacolarità il suo principio ed insieme il dato che lo differenzia dalla maggior parte dei film di questo tipo (non è un caso che La talpa, tratto da un romanzo di John Le Carré, lo stesso de La spia, sia una delle poche eccezioni).

 

Scelta rischiosa quella di Corbijn che lo porta quindi ad abbracciare non il modello dell’action alla Bourne, bensì quello più vicino alle dinamiche seriali: sia sotto gli aspetti positivi (le sospensioni, il non detto, i dialoghi significativi eppure non scolastici), sia sotto quelli negativi (tutti i personaggi, a parte Bachmann, avrebbero bisogno di più “puntate” per essere sviluppati). Grazie a un costruzione cadenzata e mai forzata della trama, il film arriva all’ultimo atto con tutti i file ben tesi e pronti per essere sciolti. Così, quell’emozione che non è mai arrivata, quella voce trattenuta per tutto il film, può finalmente liberarsi in un “fuck” gridato a pieni polmoni. Perchè in quell’urlo c’è la consapevolezza che mai nessuno riuscirà “a cambiare il mondo”, c’è la vita di un uomo che ha deciso di arrendersi, c’è la rabbia di chi sapeva fin dall’inizio di non potercela fare. La stessa rabbia che abbiamo noi nel sapere di aver perso un attore così.

 

 

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