Dopo le raccolte di racconti Latte (minimum fax 2001) e Dov’eri tu quando le stelle del mattino gioivano in coro? (minimum fax 2004), Christian Raimo ha pubblicato, nel 2012, il romanzo Il peso della grazia. Ora torna al racconto con Le persone, soltanto le persone, una sorta di viaggio nella contemporaneità scavando nei sentimenti e negli stati d’animo dei protagonisti. Perché la letteratura allarga lo spazio della condivisione e ci fa conoscere parti nascoste di noi stessi.
Christian, torni al racconto dopo l’esperienza del romanzo. Ti trovi più a tuo agio in questa forma narrativa? Come cambia l’approccio tra romanzo e racconto?
E’ una cosa molto diversa, nel senso che ci sono dei modelli per la narrativa breve, mentre per il romanzo i modelli sono antitetici. Nel romanzo c’è l’idea di dover rappresentare un mondo, mentre nel racconto quella di dover rappresentare una scena. Quando scrivo un romanzo cerco di capire cosa stanno facendo i contemporanei, stranieri e italiani: da Donna Tartt a Pynchon fino a Giorgio Vasta. Con i racconti faccio più o meno lo stesso, dalla Munro a Cortázar fino a Borges e Bolaño.
Nelle tue storie sembra esserci molto spazio per la contemporaneità. Da cosa prendi spunto per le tue storie? Quanto conta la vita reale in quello che scrivi?
La vita reale è sempre un mistero, nel senso che chi fa narrativa si rende conto che scrivere è il modo migliore per avvicinarci a un semplice mistero della realtà. Dopo un po’ si ha la sensazione che scrivere è dare una forma al proprio mondo e non ad una situazione reale ed oggettiva. L’idea è che quel mondo personale sia condiviso con altri lettori. Quindi mi interessa molto raccontare, più che l’oggi di per sé, quali sono gli sguardi e le parole che lo descrivono. Quello è il materiale primario per uno scrittore. Cos’è la realtà oggettiva non lo troverò scritto neanche nei romanzi di fisica.
In alcuni racconti, come Il gioco sbagliato, traspare forte la rimozione del passato da parte della generazione attuale. Quanto vale davvero il passato? E i giovani possono vivere senza?
Più che una rimozione direi che c’è una forma di sberleffo nei confronti del passato. Quei racconti lì sono quasi attesi, dei tentativi di pensare che da un punto di vista soggettivo, culturale ed emotivo, ci si possa sbarazzare del peso museificante del ‘900 italiano, non perché quel peso non bisogna prenderselo su di sé, ma perché credo che bisogna anche metabolizzare e digerire il fatto che si possa usarlo in maniera più libera, più punk, più anarchica…
Un grande spazio sembri dedicarlo anche ai sentimenti, che sembrano a volte risolutori in senso positivo ed altre volte distruttivi. Che ruolo hanno nella tua vita, e quando un sentimento supera questo limite che porta alla negatività?
Questa è una domanda a cui faccio fatica a rispondere. Diciamo che il racconto serve anche a mostrarci parti nascoste di noi stessi. Quando uno scrive un libro scopre parti di sé che non credeva di avere, delle luci e delle ombre. Se esiste una programmaticità in questo libro, la troviamo ben definita nel titolo, Le persone soltanto le persone. Mi interessava fare una mappa emotiva della contemporaneità attraverso una serie dei personaggi; una mappa che però fosse diversa da una catalogazione di consumi, ad esempio. Quello su cui puntavo erano i sentimenti, gli stati d’animo, le emozioni.
Nel tuo libro dici che la gente si è scordata come si fanno le cose elementari. Come si riacquista la capacità delle piccole cose?
Ma sai su questo non sono molto d’accordo. Ora non ricordo bene quale sia il personaggio, ma forse è uno che non la pensa come me. Io non credo nella retorica delle piccole cose, mentre invece credo molto nella retorica della complessità, e che l’umanità non si è mai salvata perché è ritornata alle piccole cose, ma perché ha ricercato cose complesse che mettevano a repentaglio vite ed esistenze. Poi sai, il romanzo è bello perché gli autori spesso possono essere in disaccordo con i propri personaggi.
Progresso e contemporaneità fanno rima spesso con isolamento. Quanto è importante la “molteplicità”, la “condivisione” per capire chi siamo?
La letteratura è una specie di placebo in questo grande trauma che abbiamo nell’esistenza, per cui anche con la persona con cui abbiamo passato una vita, con le persone con cui pensiamo di avere un rapporto molto intimo, non riusciamo comunque a condividere tutto, ma solo una parte di noi. E anche con noi stessi, non siamo mai del tutto trasparenti. La letteratura è un tentativo di allargare quello spazio di condivisione. Un tentativo ambizioso perché fatto con lettori che sono in fin dei conti sconosciuti. Io, ad esempio, in questo momento sto leggendo un romanzo di Philip Roth, ed una parte di me pensa di condividere un po’ di quello che è nella testa dell’autore. E questo è un immenso sollievo rispetto alla solitudine alla quale ci condanna, in parte, la condizione umana, che è, dal punto di vista della condivisione, soltanto parziale.