La trasgressione (semantica, morale) è la prima freccia nell’arco del Jean-Luc Godard di Fino all’ultimo respiro. L’incipit è rivelatorio: un trionfo di raccordi sbagliati, smorfie parodistiche (il broncio di Jean-Paul Belmondo che, sigaretta al labbro, sbeffeggia affettuosamente Bogart), montaggio ellittico. Michel Poiccard, delinquentello di Marsiglia, ruba un’auto: lanciato in una corsa folle sulla strada, canticchia, parla in camera, gioca con una rivoltella. “Gioca”, fino a che un sorpasso avventato non gli attira l’attenzione di due agenti della polizia: l’inseguimento si conclude con la morte di un agente e Poiccard che fugge per le campagne.
Sin dalle prime, concitatissime battute, Fino all’ultimo respiro ha il sapore di un manifesto. È il segno di una nuova estetica cinematografica, sviluppata da un esordiente che ha studiato i classici (Godard era un critico dei Cahiers du cinéma) e non teme di confrontarsi con loro, in un mix di affetto e irrisione. L’intento è programmatico: infrangere le convenzioni. A guidare la fuga di Poiccard (che nel frattempo si lega ad una studentessa americana, Patricia, che vorrebbe portare con sé in Italia), un sano spirito anarchico, incarnato nella recitazione nevrotica di Belmondo. I suoi tic, e quelli della compagna Jean Seberg, riempiono lo schermo più degli snodi della trama: assieme ai dialoghi, lunghi e spontanei, danno un tocco situazionista e straniante alla messa in scena.
Fino all’ultimo respiro (che si basa su un soggetto inedito di Truffaut) mette insieme noir e cinema di serie B americano (Bogart, dicevo, ma anche la casa di produzione Monogram, citata nel finale), neorealismo e incomunicabilità. La libertà espressiva con cui Godard cuce il tutto (e che per certi versi richiama il coevo lavoro di Michelangelo Antonioni) si ricollega a quella produttiva: il film fu girato a bassissimo costo, in alcuni casi senza l’autorizzazione per le riprese in strada. Una potente e sincera presa di distanza dall’industria cinematografica tradizionale che, assieme all'”estremismo” visivo, valse a Godard gli strali della critica più paludata.
La critica più giovane e militante, invece, applaudì: Fino all’ultimo respiro codificava in modo brillante la nascente Nouvelle Vague, il più importante rinnovamento del linguaggio cinematografico nel dopoguerra. La consacrazione venne con il premio al Festival di Berlino per la miglior regia. Anni dopo, lo status di classico di Fino all’ultimo respiro fu ribadito da un remake hollywoodiano di Jim McBride (Breathless, con Richard Gere e da Valérie Kaprisky). Quanto di più lontano dalla poesia ansiosa e irridente di À bout de souffle.