Anomalie, di Mauro Covacich, viene ristampato da Bompiani proprio mentre l’autore triestino è candidato al Premio Strega con La Sposa, che di Anomalie è il naturale continuum. Già, perché tra le due raccolte di racconti esiste un contatto tangibile, entrambe estremamente attaccate al presente e frutto di pensieri sul mondo che ci sta intorno.
Se ne La Sposa il tema dominante sembra essere quello dell’incompiutezza, qui è l’anomalia del quotidiano a farla da padrona. Resta comunque il fatto che lo stile di Covacich riporta a dei fili conduttori precisi che legano le varie storie. In Anomalie conosciamo protagonisti di undici situazioni estreme: un cecchino e le sue ultime memorie, un’insegnante che si copre gli occhi con del nastro adesivo per provare le stesse sensazioni della studentessa cieca di cui è innamorato, un gruppo di ragazzi in un campo da basket a Sarajevo, perversioni orribili di amici che vivono apparentemente senza vizi. Che cosa lega ogni personaggio? Che cosa fa di una storia che inizia nel modo più semplice possibile, un’anomalia?
A ben vedere è come se ogni protagonista delle storie di Covacich tenga nascosto dentro qualcosa, che cresce pian piano e logora dall’interno, fino ad esplodere. I racconti di Anomalie sono proprio questo: la descrizione del preciso momento dell’esplosione, della presa di coscienza o della consapevolezza. O sono, anche, il narrare del cambiamento nel pieno del suo essere e, quindi, la descrizione della “nuova strada anomala”. Ma già l’autore nell’introduzione ammette che nel 1998 – anno di uscita della prima edizione – viveva nel Nordest che, seppur produttivo, «annaspava in un’angoscia soffusa e quasi impercettibile».
Insomma, ci spiega Covacich che Anomalie, così come La Sposa e ogni altra sua opera, nasce dall’osservazione del quotidiano, e che questi racconti, pur essendo autonomi, sono parte di una costruzione più ampia, un unico grande sguardo che li racchiude e che racchiude il vissuto umano, i suoi sentimenti e le sue stravaganze. È questa la differenza tra letterato – trincerato e protetto nelle aule universitarie e nelle redazioni dei giornali – e scrittore, che «deve gettarsi in mezzo alle cose, affrontarle, farne esperienza. Solo se esce di casa, solo se si sporca le mani, può sperare che la sua vita diventi scrittura». A questa quotidianità, Mauro Covacich aggiunge un po’ di immaginazione, per tramutare il vissuto personale in sentimento condiviso.
Ed è forse anche per tutto questo che preferisce il racconto al romanzo, perché il racconto «è molto più simile alla canzone che al romanzo […] pochi personaggi, una storia semplice e, sin dall’inizio, una certa sensazione di ineluttabilità. A me ha sempre fatto pensare a un tuffo, una caduta a precipizio formalizzata in un gesto».
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