Lo straniero senza nome è il secondo film diretto da Clint Eastwood, all’epoca (1973) già conosciuto come icona del genere western grazie alle sue interpretazioni nei film di Sergio Leone. Non è quindi un caso che venga proprio dalla celebre Trilogia del dollaro lo spunto per il personaggio protagonista di questa pellicola: l’”uomo senza nome”, figura perfettamente cucita addosso all’attore Eastwood che ha infatti scelto di riproporla e interpretarla in questo suo film, mantenendone intatti il caratteristico gelido fascino e l’aura di mistero ma sconvolgendone l’impostazione morale, dando cioè vita ad un personaggio più anarchico che benevolo.
L’incipit dice molto riguardo il tono del film: siamo messi di fronte ad uno scenario surreale, un’area desertica caratterizzata dalla presenza di un ampio lago con un piccolo villaggio alle sue sponde. Dall’orizzonte, come un miraggio, spunta un uomo a cavallo (Eastwood), diretto verso le case. Qui viene accolto dagli sguardi timorosi degli abitanti ed è presto chiaro che non si tratta di un uomo qualunque: lo dimostra involontariamente liquidando fuori dal saloon tre uomini armati, in risposta ad una loro provocazione. Gli abitanti sembrano contenti di essersi sbarazzati delle tre guardie nullafacenti e, essendo ora senza difese e riconoscendo nel silenzioso straniero grandi doti di pistolero, gli chiedono aiuto nell’affrontare una minaccia incombente sulla comunità: il ritorno di un gruppo di spietati pistoleri in cerca di vendetta. Lo straniero accetta di organizzare la difesa del villaggio, ma a patto di ottenere dalla comunità tutti i beni da lui richiesti (donne e alcol inclusi), privilegio che lui sfrutterà comportandosi in modo sprezzante, creandosi più nemici che alleati.
Eastwood si è fatto le ossa con Leone e la regia ne risente positivamente: con pochi elementi essenziali costruisce una trama efficace, ricca sia di momenti ironici (in molti si lamentano ma nessuno riesce a opporsi alle richieste spesso eccessive del pistolero) che brutali (diversi minuti sono dedicati ad una cruenta scena di fustigazione) e accompagnata da una colonna sonora dal tono vagamente onirico. La sceneggiatura non è molto curata, come è facile intendere dai dialoghi; la forza della pellicola risiede tutta nella fotografia, nelle scenografie (originale l’idea di pitturare le case del villaggio con un rosso infernale per accogliere i banditi) e soprattutto nell’interpretazione di Eastwood, ormai pienamente a suo agio nel ruolo del pistolero senza nome, al quale attribuisce una personalità peculiarmente ambigua, elemento che ha spinto i critici a isolare questo western dal canone tradizionale.
Tra le critiche più forti al film ricordiamo quella di uno dei grandi divi hollywoodiani del genere, John Wayne, che non ha apprezzato il tono complessivamente violento e l’ottica “revisionista” con la quale è rappresentato il far West. Commentando il film, Eastwood ha sottolineato come volesse in realtà costruire una sorta di allegoria riguardante la giustizia e la coscienza (gli abitanti della comunità hanno alcuni scheletri nell’armadio), due entità delle quali il pistolero, angelo o demone della vendetta lui stesso (figura piuttosto ricorrente nel cinema di Eastwood), sembra essere l’incarnazione.