Quando Suburra venne pubblicato correva l’anno 2013: nella storia di De Cataldo e Bonini ritroviamo tracce di Romanzo criminale, da dove l’avevamo più o meno lasciato. Dall’ascesa e caduta di Libanese, Freddo e Dandi sono ormai trascorsi parecchi anni: l’unico superstite di quella che fu la gloriosa banda della Magliana è il Samurai – nome di battaglia che gli è stato dato proprio da Dandi, durante un “soggiorno” in carcere –, che dall’alto delle singole parti supervisiona le attività illecite in una Roma ormai fuori controllo. I capi di una volta, quelli veri, con degli obiettivi o un sogno come poteva essere quello di Libano, non esistono più: i leader non hanno più cuore, cervello e fegato, vivono di soli interessi e nessun ideale, difendono il loro potere, quasi mai acquisito da sé, ma ereditato da altri, con crudeltà.
Intorno all’idea di un fantomatico progetto – ovvero l’ennesima speculazione edilizia -, quello del Waterfront, si sviluppano le vicende di una serie di personaggi: l’onorevole Malgradi, con la fissa della coca e delle mignotte; il Numero Otto, che controlla la zona di Ostia e che inizierà una sanguinosa faida con gli Anacleti, una famiglia di gitani che comanda alla Romanina; le donne di Suburra, la escort Sabrina, la donna del Numero Otto, Morgana, e Farideh, la figlia di un onesto artigiano che si fidanzerà con un tirapiedi di Rocco Anacleti; e poi gli sbirri, tra i quali spicca il colonnello Marco Malatesta, che porta una cicatrice in volto in ricordo di un antico legame col Samurai.
De Cataldo e Bonini raccontano la caotica parabola di personaggi atroci e vili, e quella discendente di uomini giusti che diventano criminali (uno su tutti, Sebastiano, figlio di un imprenditore che si è suicidato pur di non finire in mano agli strozzini); insieme a politici e poliziotti corrotti, spiccano i delinquenti privi di un codice d’onore, con scarsa lungimiranza, incapaci di stringere alleanze solide finalizzate a grandi progetti, mentre i pochissimi, e comunque fragili, equilibri sono dovuti al Samurai, l’unico a possedere la lucidità e l’intelligenza dell’uomo che comanda.
Tutto in Suburra suona profetico, con un paio d’anni di anticipo rispetto al 2015: in particolare, c’è un passaggio verso la fine in cui viene raccontato un funerale piuttosto sfarzoso, che lascia momentaneamente interdetti per la verosimiglianza con l’estremo saluto a Vittorio Casamonica. La Roma narrata in Suburra è una città ormai senza speranza, ben diversa da quella raccontata in Romanzo criminale: là, certo, vigevano la corruzione e la violenza, ma c’erano ancora uomini con sogni (per quanto discutibili), con progetti e, soprattutto, con il senso della banda, con l’idea di essere parte di un gruppo più ampio. In Suburra, seppur aggregati, i singoli individui non esitano a mentire e a tradire in nome della salvezza personale: non esistono nemmeno più uomini degni tale nome, ma solo bestie, che come animali pensano e si comportano. A questo triste ritratto urbano è riconducibile il significato di “suburra”, che se nello specifico indica un quartiere dell’Antica Roma, nel linguaggio comune richiama l’immagine di un luogo malfamato, immorale, fuori controllo. La domanda è: Roma può ancora salvarsi? Suburra sembra dirci di no.
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