Rossella Milone, la tua letteratura si muove tra il romanzo e il racconto. Come fai a scegliere qual è la forma più adatta per le tue storie? Dove senti di esprimerti al meglio?
È la storia che sceglie dove vuole essere raccontata. Ci sono quelle che vanno bene per il romanzo. Altre che sono da subito, nella loro essenza, già dei racconti. Il mio occhio spesso è incuriosito da storie che pretendono il racconto; forse sono allenata in questo senso qui, forse il racconto ha qualcosa di intimo, immediato e lucente che me lo fa amare moltissimo. Ma il romanzo mi affascina altrettanto, solo che ci deve essere una storia portentosa, per me, per scrivere un romanzo. Ci vogliono piedi allenati per la maratona, e storie con quel fiato lì: lungo, parsimonioso, paziente. Io amo scrivere racconti; soprattutto racconti lunghi che, dicono, hanno l’aspetto del romanzo. Credo che quella zona d’ombra che si trova tra le due forme mi racconti un mistero al quale non so resistere, e allora provo a scriverlo.
Ne Il silenzio del lottatore i protagonisti sembrano seguire percorsi di crescita personali. Possiamo considerarlo un libro che parla soprattutto di uno sviluppo interiore?
Non conosco libri che non parlino di interiorità. Quelli che non lo fanno sono brutti, secondo me. O, almeno, sono superficiali. La letteratura racconta l’uomo e l’essere umano è fatto soprattutto di ciò che si porta dentro. Di una sua evoluzione all’interno della propria stessa vita. Ovviamente, di una vita che poi viene in contatto con altre vite. Nel mio libro, nello specifico, ho voluto raccontare cosa accade a dei personaggi osservati in un certo periodo della loro vita; cosa significa cambiare in un determinato momento e non in un altro. Tutti questi periodi, poi, possono essere messi insieme e una volta incollati tra di loro possono diventare l’evoluzione di un’unica, stessa esistenza. È come se il libro fosse composto da sei racconti più uno.
Che valore ha il senso della scoperta nelle tue storie? E che valore ha invece l’abitudine?
Mi vengono in mente due categorie di scoperte. Quella strettamente stilistica, in cui la classica epifania joyciana svela al lettore un momento luminoso, inaspettato, rivelatore che permette alla storia di evolvere o al protagonista di cambiare. Poi c’è un tipo di scoperta che riguarda me, mentre scrivo; quando voglio far fare al personaggio una cosa e poi scopro che ne fa un’altra; quando imbocco una strada che non avevo visto arrivando in un posto assolutamente inaspettato della storia. Ecco, la seconda tipologia di scoperta è intimamente legata alla prima, perché è solo così che l’epifania si rivela: prima a chi scrive, poi a chi legge. I personaggi di questo libro si trovano a dover fare delle scelte di fronte a delle scoperte che li pone sul ciglio di un burrone; saltare oppure no. Oppure tornare indietro. Molto spesso questo ciglio è rappresentato dalle abitudini di cui forse parlavi; cioè, dalla rete a maglie strette in cui la vita di tutti i giorni li tiene legati. I primi a sorprendersi delle loro ribellioni, o dell’emancipazione rispetto a queste maglie, sono i personaggi stessi; poi dopo, forse, anche i lettori.
Nel libro ci sono storie tutte al femminile. Cosa lega la donna al senso della “lotta”, e che rapporto hanno le donne delle tue storie con il mondo che le circonda?
Potrei dire che la donna è abituata e costretta alla lotta da sempre. In senso fisico, prima di tutto: ha a che fare col ciclo mestruale, col parto, con la cura dei figli…Tutte esperienze che la pongono nei confronti della vita in modo attivo, combattivo; e poi anche in senso ideologico e civile: la conquista del voto, le lotte di genere, la sua emancipazione che è frutto di una lotta continua…Potrei dire queste cose qui. Però in realtà io voglio solo raccontare delle storie. Le storie delle donne che vedo per strada; che osservo; che mi incuriosiscono; che mi affascinano o meno; che mi colpiscono. È chiaro che ognuna di queste donne, si porta appresso le sue lotte soggettive, che poi contengono il riverbero di lotte più universali (la conquista del voto, la lotta di genere, eccetera); per cui, alla fine, le donne che vorrei raccontare sono dei caleidoscopi: hanno qualcosa di loro, di intimo, di privato, e qualcosa delle altre donne, cioè, di ciò che il mondo le ha gettato addosso. È questo che vorrei raccontare, semplicemente la verità delle storie che vivono le persone. Ma non è affatto una cosa semplice, in realtà.
Parlando di racconti e di letteratura, quali sono, se ci sono, autori e modelli a cui fai riferimento? E a cosa ti ispiri per le tue storie?
È un lungo elenco. I modelli cambiano in continuazione (c’è stato un periodo in cui leggevo solo Agota Kristof) e a volte, se non si fa attenzione, finiscono per essere troppo ingombranti. Io i miei maestri li considero come delle guide che mi indicano una strada. Certo, c’è la Munro – ogni cosa scritta da lei, ogni virgola, per me acquisisce un senso epifanico miracoloso. Però c’è Anche la Ortese, e Landolfi, e la Ramondino, Eudora Welty. Insomma, un sacco di gente. All’ispirazione, invece, non ci credo affatto. Per me non esiste. Esiste uno sguardo, che si sa appoggiare sulle cose o che non si sa appoggiare. Se si sa guardare bene, le storie sono costantemente ovunque.
Rossella Milone, che cos’è per te il silenzio?
È una domanda difficile. Io ci sono molto affezionata, al silenzio. Forse perché non ho mai avuto fratelli, per fortuna ho sempre avuto una stanza tutta per me, forse perché i miei mi portavano a fare lunghi safari per monitorare certi animali, e noi dovevamo starcene sempre zitti. Forse perché sono pigra. È come se fosse stato un mio fedele compagno da sempre, in cui trovo sempre molto conforto. Però credo sia una buona virtù; il silenzio impone un certo tipo di concentrazione; una specie di pausa; un’attenzione all’ascolto e all’osservazione poco superficiale. Forse se non fossi stata una bimbetta taciturna e curiosa, non sarei diventata una scrittrice.
Quali sono le tue battaglie, per che cosa lotti? Rimani in silenzio prima di iniziare a lottare?
Per ora le mie battaglie sono con i grumi di farina che si formano nella pappa di mia figlia. Proprio non si sciolgono. E dopo notti insonni, lottare coi grumi ti assicuro che è seccante. Ecco. Per ora le mie lotte sono queste: sciogliere i grumi, imparare a nutrire un’altra persona. Forse mi dovrei preoccupare della pace del mondo; o della questione femminile nell’editoria italiana (ho scoperto che ci sono alcuni premi letterari che non hanno manco una donna in giuria). Però ho pensato che provare a fare un buon lavoro con mia figlia potrebbe essere un buon inizio.