Ho letto tutti i libri di Nicolai Lilin ed ero curioso di conoscerlo. Personaggio affascinante per le cose che racconta e per la cruda lucidità con la quale le esprime. Come mio solito, non cerco mediazioni di agenzie o uffici stampa di case editrici, ma punto dritto alla ricerca del contatto diretto con l’autore, per capire già dall’approccio un po’ dell’uomo più che dello scrittore. E con Nicolai Lilin l’approccio è quanto mai semplice: lo contatto in Facebook e gli lascio i miei recapiti. Non passa mezz’ora che mi risponde. Ci scriviamo in Whatsapp e concordiamo l’incontro. Solido, deciso, la stretta di mano vigorosa, gli occhi scuri intelligenti, curiosi, profondi piantati dritti nei miei. Non è il caso di convenevoli né di troppi preamboli.
Quale è stato l’elemento scatenante che ti ha portato a scrivere?
In realtà non ho cominciato a scrivere perché mi sia successo qualcosa dentro. Avevo collaborato con Giorgio Cattaneo drammaturgo, ora anche scrittore, che leggendo alcune cose che avevo scritto mi ha consigliato di continuare. E così è stato.
L’esordio di Nicolai Lilin è con Educazione Siberiana (2006 Einaudi) nel quale attraverso il personaggio di Kalima ripercorre la sua adolescenza in Siberia, nella Transnistria, in quel sobborgo di Fiumebasso che i suoi lettori hanno bene a mente. Un esordio che è un pugno nello stomaco per cosa e come racconta. Un successo, tradotto in 19 lingue, distribuito in 24 paesi, trasposto cinematograficamente da Salvatores. Segue Caduta libera (2010 Einaudi) dove racconta il passaggio all’età adulta, l’esperienza della guerra in Cecenia come cecchino nei corpi speciali dell’esercito russo.
Cosa hai visto attraverso il mirino del fucile?
Brutte cose. Ho capito che la guerra è un fallimento. E’ il simbolo del fallimento umano. Terminato il servizio militare ho sentito il bisogno di tornare in Siberia, alla vita povera. Il respiro del buio (Einaudi, 2011) è un viaggio alla ricerca della purificazione dell’uomo, la ricerca di me stesso, sotto la guida della determinante figura di mio nonno.
Il serpente di Dio (Einaudi 2014) invece non è più autobiografico, ma affronta un tema molto delicato quale la convivenza pacifica tra musulmani e cristiani, che viene aggredita dal male. Chi è oggi il serpente di Dio?
La presenza divina agisce attraverso tante forme e mezzi diversi, anche attraverso persone che commettono delle atrocità. Dio nei suoi scenari investe anche sui mostri. Il serpente di Dio racconta soprattutto la redenzione. Viviamo in un mondo di slogan, di apparenze non appoggiati dalla consapevolezza e dalla conoscenza della tradizione e della storia. Multiculturalismo significa rispettare il nostro prossimo senza chiedersi perché. Volevo raccontare una bellissima storia e condividere con i lettori occidentali che c’è una via sensata che conduce ad una integrazione pacifica. La bellezza che c’è nei singoli individui non ha bisogno dei grandi sistemi istituzionali, i quali si basano su presupposti che invece di avvicinare portano all’allontanamento tra le persone. Sono convinto che se ci fosse l’anarchia totale le persone sarebbero organizzate meglio di quanto lo siano in uno Stato.
Dopo Spy story love story (Einaudi 2016), nell’ultimo libro Il marchio ribelle (Einaudi, 2018) Kolima ritorna a Fiumebasso e riaffiorano i temi a te cari, le bande, i fuorilegge, il rispetto, il significato dei tatuaggi, ai quali avevi dedicato Storie sulla pelle (Einaudi, 2012). Il tema del tatuaggio è ricorrente sia nella tua vita che nella tua produzione letteraria, ulteriore conferma ne è il tuo ultimo libro.
In Educazione Siberiana non ho potuto approfondire alcuni temi come avrei voluto. Vengo da una famiglia di criminali e lo spirito di contrabbandiere mi appartiene per formazione mentale. E in letteratura questa propensione trova uno sbocco naturale e si realizza facilmente. Fare contrabbando in letteratura è appagante, significa che, a fronte di un tema evidente, dichiarato come può essere quello dei tatuaggi, porto il lettore a scoprirne altri che non si aspettava. Proprio il tema dei tatuaggi è uno spunto ne Il marchio ribelle (Einaudi, 2018), per raccontare il momento del crollo dell’Unione Sovietica, per approfondire i mutamenti nella società, le lotte e i contrasti generazionali, il cambiamento delle periferie per arrivare fino al potere centrale.
In Caduta libera scrivi: “Non sempre si è ciò che si fa. L’uomo dovrebbe essere più di ciò che fa.” Cos’è rimasto del Nicolai Lilin cecchino nei Corpi Speciali?
E’ una domanda che mi faccio spesso. Osservo me stesso da lontano, la mia vita con una moglie e due figlie. Sicuramente è rimasto tanto, perché quello che sono stato non può essere stracciato, bruciato come è possibile fare con una divisa. Sicuramente quanto ho vissuto in guerra mi ha reso più consapevole verso i meccanismi che regolano il mondo, meno ingenuo, meno idealista, più anarchico. Ho imparato nelle grandi situazioni a cercare i piccoli dettagli nascosti. Oggi apprezzo molto la pace, la sento dentro, non sono il pacifista all’occidentale che si nasconde dietro a una bandiera colorata.
E cosa del Kolima di Fiumebasso?
Mi sento più il ragazzo di Fiumebasso che il cecchino uscito vivo dalla guerra in Cecenia. Ho partecipato alla guerra nel ’92 che mi ha cambiato, mi ha fatto sentire adulto, con nuove responsabilità ma al tempo stesso è stata una liberazione. L’infanzia mi ha dato l’impronta per essere l’uomo che sono oggi. Le basi di quell’educazione siberiana hanno formato la mia personalità. E di quella formazione conservo tante espressioni. Ancora oggi sono rimasto quello che guarda dritto negli occhi gli altri. La gente rimane imbarazzata, ma per me parlare senza guardare negli occhi le persone significa mancanza di rispetto.
Senti di appartenere più alla letteratura russa o a quella italiana?
Mi sento figlio della letteratura russa nella costruzione del pensiero e nella struttura della narrazione. Mantengo l’impostazione classica russa nel descrivere approfonditamente scene e particolari che costituiscono i pilastri della letteratura russa. Una impostazione che è attuale ed è presente anche tuttora, addirittura nelle comunicazioni private quotidiane. Le e-mail che mi mandano miei amici russi, sono lunghissime, ricche di particolari, sono dei veri e propri racconti, delle piccole storie. E’ un modo di raccontare di chi vive in un paese di grandi dimensioni e grandi distanze, dove governa la nostalgia per non poter vedere più spesso persone lontane. La lingua italiana mi ha insegnato ad approfondire concetti che in russo sono decori linguistici, senza importanza. Mi ha dato modo di inserire elementi espressivi, dando una forma di ossimori. Ad esempio definire onesto un criminale, in russo è puramente un elemento di decoro linguistico, al quale nessuno bada, viene naturale. Sono affascinato dalla liricità di Manzoni, paragonabile a quella di Omero. Sulla mia scrivania tengo una copia della Divina Commedia e ogni giorno ne leggo un passo.
Oltre alla scrittura hai altri impegni, alcuni dei quali decisamente sorprendenti…
Si, faccio parte del direttivo di Outsiders, un collettivo internazionale di artisti, che ha l’obiettivo di riportare il rispetto della forma nell’arte, in ogni sua espressione. Il 28 novembre abbiamo debuttato a Firenze con “La Rondine”, un’opera di Puccini della quale ho riscritto il libretto. E’ un lavoro che riunisce forme artistiche diverse. Marchiaturificio Tatoo Lab è un progetto itinerante mirato alla formazione di tatuatori, ma vuole fargli prendere coscienza dei valori e dei simboli del tatuaggio, insieme al rispetto del corpo. Sempre in tema, ho iniziato una collaborazione con la Ta2, la prima azienda italiana che produce giacche di pelle personalizzate con una tecnica di tatuaggio brevettata.
Negli ultimi anni i tatuaggi hanno avuto una diffusione molto ampia, tu che ne hai una conoscenza così profonda, cosa ne pensi?
E’ una moda. Basata unicamente sulla vanità estetica. Gli individui si ricoprono il corpo di disegni senza conoscerne il significato. Tra i calciatori c’è la moda di farsi tatuare la Tartaruga Maori, senza sapere che si portano addosso il simbolo della fertilità femminile che veniva tatuato sul corpo delle ragazze Maori alla prima mestruazione. A questo proposito mi viene in mente un proverbio siberiano che dice “Quando il cervello non pensa il corpo soffre”. I tatuatori sono delle macchine fotocopiatrici. Il tatuaggio invece è una lingua per comunicare, i simboli sono una testimonianza di quello che è stata una vita, cosa è successo durante essa. Quando faccio un tatuaggio, non faccio scegliere. Mi faccio raccontare la storia dell’individuo, sulla base della quale preparo il disegno. Non chiedo se piace.
Progetti futuri?
Un altro libro che sto terminando, dedicato a donne che hanno compiuto azioni eroiche durante la Seconda Guerra Mondiale. Sono venticinque storie di donne sovietiche che hanno fatto cose che nessun uomo avrebbe mai fatto.
Abbiamo parlato di molte cose, senza un ordine preciso, come persone che si conoscono da tanto tempo e si siedono insieme al bar a chiacchierare. Fino a un paio di ore fa immaginavo che quest’incontro non mi avrebbe lasciato indifferente. Ora ne sono certo.