Andrea Donaera è stato uno degli scrittori protagonisti di questo 2019. Il suo romanzo d’esordio, Io sono la bestia (NN editore) è stato una splendida sorpresa. Una storia non facile da raccontare che abbiamo cercato di analizzare. Parliamo di personaggi in fuga, di famigliarità che genera disprezzo e di cosa si nasconde dentro ognuno di noi. Ecco la nostra intervista ad Andrea Donaera
Andrea Donaera, Io sono la bestia è il tuo romanzo d’esordio. Una storia non semplice da affrontare. Come l’hai scelta? Quando e perché hai deciso di raccontarla?
Nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza ho ascoltato tante storie e tanti aneddoti riguardanti la Sacra Corona Unita: quasi sempre racconti distorti o del tutto inventati, messi in piedi giusto per avere una narrazione spendibile durante le lunghe serate sperperate nella provincia salentina. Ma comunque queste storie sono andate a comporre una mia personale mitologia. Così, circa sei anni fa, ho iniziato a immaginare di essere io l’autore di una di quelle narrazioni “popolari” con le quali ero cresciuto; ho iniziato a costruire lentamente i pezzi del racconto nella mia mente, fino a quando nell’autunno del 2017 non ho scritto tutto il primo abbozzo del romanzo, in un mese di scrittura quotidiana e quasi febbrile.
I legami familiari sono alla base del tuo romanzo. Quanto è stato difficile “entrare” in un contesto come quello della Sacra, raccontare le dinamiche e le emozioni dietro ad ogni scelta?
Il tema della famiglia mi è stato sempre caro, anche nei miei episodi di scrittura poetica. Perché, come diceva il sociologo Goffman: «la famigliarità genera disprezzo». La famiglia è il nostro backstage, rifugio dalle ansie della scena sociale, ma molto spesso anche tana dove poter riversare tutto il nero e il torbido. Tra le mie più grandi ispirazioni c’è Eduardo De Filippo, che è stato uno dei più grandi autori del Novecento perché è stato in grado di indagare in profondità le drammatiche possibilità umane che si verificano nei nuclei famigliari. Ho scelto una famiglia della Sacra Corona perché avevo la necessità di un espediente narrativo: per rendere plausibile un racconto estremo, pulsionale, causalmente violento.
Hai scelto una narrazione a più voci, punti di vista diversi. Cosa volevi ricercare facendo parlare insieme tutti i protagonisti?
La polifonia mi sembrava un buon modo per far procedere una narrazione (molto carica di eventi) senza ingorghi stilistici e senza annoiare il lettore. La tecnica del “Point of View” l’ho imparata sin da ragazzino leggendo gli horror di Stephen King e i fantasy di Martin: la sento ormai come una “tecnica” molto agevole e vicina al mio modo di concepire le storie. Poi, inutile negarlo: creare diverse voci è stato complesso ma molto, molto divertente; forse, secondo me, è tutta qui l’esperienza della scrittura: nell’entrare dentro un qualcuno e farlo parlare nel modo più verosimile possibile.
Mimì sembra essere il motore della storia. Ma è davvero lui la bestia di questo racconto?
Mimì è stato il carburante libidico della mia scrittura, dunque si colloca nel romanzo come l’oscurità che incombe, l’orrore che è imprevedibile: ma umano, con le sue intime cause, chiuso nella sua scatola composta da traumi tremendi… E dunque forse proprio per questo ancora più “bestiale” e spaventoso. Ma no, non è – solo – lui la bestia di questo racconto.
Michele e Arianna subiscono la figura del padre. Come ci si salva da un padre così, o cosa si cerca scappando da lui?
Ci si salva scappando – anche in senso estremo, come fa Michele. O rimanendo: ma facendosi depositari di un’eredità insana, orrida, con la quale non si può mai convivere pacificamente.
Parliamo un momento del rapporto che nasce tra Nicole e Veli. Sembra l’unico momento di umanità in tutto il romanzo. Che cosa lega i due ragazzi?
A ben vedere il rapporto tra Nicole e Veli nasce soltanto perché dettato dall’orrenda contingenza che li vede protagonisti. Molto difficilmente, al di fuori del casolare dove sono reclusi, avrebbero potuto scoprirsi tanto adiacenti: lei quindicenne, lui almeno ventenne – quello che nasce tra loro è segnato da un alone di sporcizia. Eppure, in una condizione tanto estrema, è possibile vedere il sorgere di qualcosa di puro: volevo provare a creare una metafora non banalizzante dell’amore che può verificarsi in tutta la sua potenza quasi sempre soltanto in condizioni liminari.
Io sono la bestia (NN editore) è una storia di interruzioni brusche, di violenza inevitabile. Sembra impossibile sfuggire a questo destino. È davvero così?
Quello che ho provato a raccontare è un universo di segni che non può essere disinnescato. Non credo nel destino: per cui, per me, è possibile comunque sfuggire a tutto – ma bisogna essere disposti a pagare ogni prezzo possibile.
Andrea Donaera, chi è davvero la bestia? C’è sempre e comunque un po’ di bestia in ognuno di noi?
Si diventa “bestia” quando si retrocede al grado zero dell’essere umano, cioè quando si è preda soltanto delle nostre due pulsioni primarie: voler salvarsi la vita e voler amare qualcuno – a ogni costo. Quando non resta altro se non questo grumo pulsionale emerge la bestia: e può capitare, a chiunque.