Francesca Mannocchi

Francesca Mannocchi: raccontare il mondo è il mio lavoro

Questa intervista a Francesca Mannocchi è un bellissimo percorso tra letteratura e giornalismo. Sì perché in questo genere ibrido sta tutta l’importanza dei lavori dell’autrice, che nel 2019 ha pubblicato per Einaudi il romanzo “Io Khaled vendo uomini e sono innocente”. Abbiamo parlato di Libia e Medio Oriente, della passione per il viaggio e per il racconto, della capacità di narrare senza giudicare. Ecco l’intervista a Francesca Mannocchi.

IO KHALED VENDO UOMINI E SONO INNOCENTE – LEGGI LA RECENSIONE

Francesca Mannocchi, da anni ormai realizzi reportage in giro per il mondo. Quando è nata la tua passione per il viaggio e per il racconto?

La passione per il viaggio c’è sempre stata perché c’è sempre stata in casa mia. Anche la passione per il racconto dei viaggi c’è sempre stata, anche quando mi occupavo di faccende italiane che potevano essere le faccende relative al lavoro o alle grandi crisi occupazionali, o scandali economici (penso alla Lega o a grandi racconti di evasione fiscale o alla storia della Fiat). Ho sempre cercato di raccontare le cose italiane prima e poi le cose del mondo con grande vena narrativa, cercando la storia. E la storia non significa necessariamente l’emozione, ma anche la piccola storia che rendesse al meglio la singola storia personale, che la rendesse plurale, la storie di tutti gli altri: una storia singola che diventasse plurale. E poi quando ho avuto la fortuna di affacciarmi col mio lavoro al racconto del mondo, questa passione si è amplificata. Devo dire che a seguito della scrittura di Khaled, il libro che ho pubblicato per Einaudi l’anno scorso, sento che qualcosa è profondamente cambiato nella mia scrittura perché attraverso quel libro sono riuscita ad attraversare dei lati di me che non avevo ancora affrontato e che sono cambiati ormai in maniera irreversibile. E questo lo prendo come un dono perché credo che quel libro mi abbia aiutato anche nel giornalismo a maturare una consapevolezza diversa della parola e ad avvicinare anche i lettori degli eventi di cronaca ad una capacità di immedesimazione con gli altri che prima forse avevo meno.

Per narrare ciò che vedi hai scelto la forma del reportage, a cavallo tra giornalismo e letteratura. Come si riesce a coniugare questi due generi?

La forma del reportage è una forma narrativa molto appassionante e complessa perché il giornalista/scrittore deve trovare un equilibrio delicatissimo tra giornalismo e scrittura. Oggi che viviamo in un momento di complessità perché sono più complesse le cose che raccontiamo (divisioni tra amici e nemici, scenari internazionale con più gradi di complessità e sfumature) il giornalista/scrittore deve comprendere in maniera più profonda quello che racconta per poi semplificarlo, che non vuol dire banalizzarlo. E’ qui che sta il segreto della cronaca. Comprendere al meglio un evento per poi semplificarlo, raccontandolo, a qualcuno che non ha gli strumenti per accedere a quelle realtà, di studiare quelle realtà pur avendo il desiderio di comprendere. Tuttavia oggi le fake news e la propaganda dominano la vita politica e la narrazione di questa vita. Un passaggio doveroso quindi anche nei reportage deve essere quello di sollevare il lettore da alcune ambiguità. Ad esempio: quando siamo stati, in estate, nello Yemen per raccontare la guerra e la crisi umanitaria, io e il mio fotografo Alessio Romezzi siamo stati sottoposti ad un controllo e ad una pressione da parte delle autorità Huthi che è stata potente e ruvida, fastidiosa. Quando sono tornata mi sono chiesta cosa dovessi fare per lasciare al lettore più strumenti per comprendere. Ho pensato che fosse necessario un prologo per spiegare che non eravamo stati liberi di lavorare. In questo modo il giornalismo ha mantenuto la sua coerenza, pulizia ed onestà, e contemporaneamente ho lasciato libere le parole delle persone che ho incontrato.

Cosa ti spinge a partire per raccontare situazioni difficili? E come scegli il Paese da visitare, la storia che più di altre merita la tua attenzione?

Quello che mi spinge a partire credo sia di base la mia personale curiosità di capire. L’idea che quando osservo da qui in Italia le instabilità irachene, le crisi libiche o il destino delle famiglie dei miliziani dell’Isis che vivono un destino di stigma il desiderio è, più che trovare la storia giusta, atterrare in un posto e lasciarmi la possibilità di formularmi delle domande nuove, prima di tutto a me stessa. Alcuni dei luoghi che ho scelto di raccontare negli anni sono posti che ho scelto di visitare, come nel caso dello Yemen, altri viaggi sono stati dettati dalla cronaca: scoppia la guerra in Libia ed è la cronaca che mi spinge ad andare, e poi dalla cronaca dipano i temi. Il fatto mi costringe a raccontare nell’oggi, in presa diretta ciò che accade. Ma il fatto mi permette anche di seguire un tema, magari per anni. Così torno in un luogo, non mi accontento di vedere come presumibilmente finisce una storia, come finisce la guerra all’Isis o come viene considerata chiusa dalla politica, dai governo o dai giornali. Torno a vedere a che punto è la storia rispetto a come l’avevo lasciata nella volta precedente.

La Libia e il Medio oriente: la situazione

MannocchiNel 2016 hai vinto il Premio Giustolisi grazie ad un’inchiesta sulle carceri libiche. La Libia è un Paese che conosci molto bene. Qual è la situazione in questo momento nel paese nordafricano?

Molto difficile rispondere sinteticamente. Ci sono vari temi che si intrecciano in questo momento nel Paese: le migrazioni, le guerre, il terrorismo, le politiche energetiche, il terrorismo. Ogni tema meriterebbe un certo approfondimento. La Libra sta vivendo la quarta guerra in nove anni dopo l’uccisione di Gheddafi. Questa guerra è forse definitiva perché è stata lanciata un’offensiva dal generale Haftar (che governa la Cirenaica) per conquistare la capitale Tripoli, che invece è sotto il governo di unità nazionale di al-Sarraj. Una guerra che ha provocato decine di migliaia di morti e di sfollati, e che ha come elemento di novità la estromissione dell’Europa, che è sempre stata un alleato storico della Libia, anche se a volte in contraddizione (penso all’Italia che ha da sempre sostenuto i governi di Tripoli o alla Francia che non nasconde l’appoggio al generale Haftar). Nonostante la presenza di altri attori sia una presenza antica (Russia, Turchia, Egitto, Paesi del Golfo) questi hanno assunto nell’ultimo anno e mezzo un peso nuovo, che ha spostato le carte in tavola. Se fino a due anni fa i protagonisti esterni erano paesi europei, oggi i veri protagonisti sono Putin ed Erdogan che giocano su fronti diversi (stanno da un lato lanciando appelli per il cessate il fuoco e dall’altro si spartiscono sfere di influenza). Ora in Libia stiamo assistendo alla stabilizzazione tragica di una nuova guerra per procura sulla scia di Siria, Yemen e Iraq, nell’asse tra Iran e Stati Uniti.

In Io Khaled vendo uomini e sono innocente hai deciso di raccontare il traffico dei migranti dal punto di vista di un trafficante. Come mai questa scelta?

Ho scelto di raccontare questa vicenda attraverso la voce di Khaled perché dopo anni in Libia mi sono molto interrogata su cosa anche io avessi sbagliato come giornalista, su cosa avessi semplificato e soprattutto sul poco che avevo capito della Libia in questi anni e mi sono detta che raccontare la Libia o il fenomeno migratorio attraverso la voce di un migrante e in generale attraverso la voce di una vittima non mi avrebbe consentito di raccontare tante sfumature di un Paese complesso come è la Libia, in cui la demarcazione tra bene e male è molto fluida, in cui la responsabilità dei traffici (uomini, armi e carburante) sono responsabilità libiche ma anche di attori esterni che operano in Libia, che sfruttano questo Paese o che hanno lì degli interessi . Tutte queste rette incrociate sono possibili solo attraverso gli occhi di una persona che è ritenuta dall’opinione pubblica come una figura totalmente appiattita sulla propria cattiveria, sulla negatività, sulla crudeltà e che invece, come tutte le cose del mondo, non è bianca o nera ma racchiude in sé motivazioni profonde che animano quella società. Parto dal presupposto che nessuno nasce trafficante, così come nessuno nasce assassino o nessuno nasce delinquente e che sono le condizioni in cui una persona si trova a vivere che determinano in maniera molto netta il suo destino. I ragazzi che oggi hanno in mano la catena del traffico di uomini sono nella grande maggioranza ragazzi che hanno vissuto la rassegnazione e la delusione del periodo post rivoluzionario, post 2011, e che si trovano a vivere in un vuoto di potere in un Paese ricchissimo in cui banalmente l’elettricità è un problema, così come il denaro contante, e che hanno riempito il vuoto della disillusione con la criminalità. Questo giustifica questa delinquenza? Naturalmente no, ma mi consegna delle domande, e queste domande sono quelle che io consegno al lettore. Nella dichiarazione di innocenza di Khaled nel titolo e nel testo, Khaled mi sta poi dicendo un’altra cosa: se ci fosse un altro modo per queste persone di attraversare il mare, io non farei il trafficante di uomini. E questo è di nuovo un dubbio che ci inchioda alle nostre responsabilità.

Il reporter e la narrazione senza giudizio: cosa pensa Francesca Mannocchi

Quanto è importante l’empatia nel tuo lavoro di reporter? E quanto è difficile raccontare senza giudicare? O pensi che sia possibile narrare esprimendo un giudizio?

Ascoltare senza giudicare è difficile ma è la precondizione per fare questo lavoro. Nessuno di noi è neutrale: io ho la mia idea e posizione su quello che vedo in Libia, nello Yemen, in Iraq, dietro casa mia, in casa mia, ovunque, ma quello che io penso deve essere uno strumento di comprensione per me, e non uno strumento che consegno e impongo al lettore. La storia che racconto non è la mia storia, la mia storia non conta niente. Francesca in un luogo non è interessante, il pronome personale “io” non dovrebbe interessare al lettore. Quello che invece dovrebbe interessare è la storia che io vado a vedere; è quella che conta. E di quella storia io sono lo strumento, sono la penna, sono lo sguardo, sono gli occhi, il registratore, le orecchie, l’ascolto. E proprio perché il mio ascolto è uno strumento io lo devo depurare. Che significa anche imparare a porre le domande che possano mettere a proprio agio anche un assassino. Perché io non sono un giudice, ma quando arrivo di fronte ad un essere umano, chiunque esso sia e qualunque sia la sua storia, ho il dovere di farlo sentire non giudicato, e questa ginnastica è la cosa più difficile per un giornalista o uno scrittore.

Francesca Mannocchi, col tuo lavoro dimostri come sia sottile la linea che divide il bene e il male. Possono la letteratura e il giornalismo essere uno strumento utile per decidere di stare dalla parte giusta? E cosa vuol dire per te, oggi, raccontare il mondo?

Non so se possano essere uno strumento per decidere di stare dalla parte giusta perché io non so quale sia la parte giusta. Raccontare il mondo significa cercare di depurare prima di tutto la mia vita e le mie opinioni dalla dittatura delle semplificazioni ma anche dalla dittatura delle emozioni. Non voglio commuovere ma cerco la limpidezza del racconto e della verità; qualunque emozione questo racconto generi. Se genera scomodità o incapacità di sopportare il peso di una storia vuol dire che ho fatto bene il mio lavoro.

Si conclude così questa intervista a Francesca Mannocchi. Parole che in molti oggi dovrebbero ascoltare per capire cosa vuol dire essere giornalisti e scrittori nel 2020, muovendosi costantemente ai confini del mondo e al confine tra generi narrativi.

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diDonato Bevilacqua

Proprietario e Direttore editoriale de La Bottega di Hamlin, lettore per passione e per scelta. Dopo una Laurea in Comunicazione Multimediale e un Master in Progettazione ed Organizzazione di eventi culturali, negli ultimi anni ho collaborato con importanti società di informazione e promozione del territorio. Mi occupo di redazione, contenuti e progettazione per Enti, Associazioni ed Organizzazioni, e svolgo attività di Content Manager.