Il Coronavirus sta cambiando le abitudini di tutti noi. Ma la narrazione esige immaginazione, per quanto possa essere assurdo, ma è la cura più forte di qualsiasi vaccino per affrontare “la tragedia” con un senso più umano.
Ripartiamo allora dalla tragedia per affrontare le parole il nostro miglior contagio, per non ritrovarci a boccheggiare dentro una crisi (la nostra) respiratoria causata da un’infezione più grande rispetto a quella del Coronavirus, ossia quello della ragione e dei sentimenti che mancano l’accordatura della vita. Chi ci salverà questa volta? Vediamo come la letteratura, in antichità e nell’era contemporanea, ha raccontato i fenomeni di epidemia globale, fino a prevedere il Coronavirus.
La peste narrata nell’antichità
Già nell’antichità la peste fu uno dei grandi mali con cui l’essere umano dovette farne esperienza, nonché “dedicargli” la vita. Una delle prime narrazioni “sulla pestilenza” proviene dallo storico greco Tucidide, che descrisse la peste di Atene del 431-430 a. C. durante la guerra del Peloponneso (dal 431 a. C. al 404 a. C., cioè fino alla caduta di Atene. Tucidide scrive: “Dica pure, riguardo a questo argomento, ognuno, medico o profano, in base alle proprie conoscenze, quale sia stata la probabile origine, e quali cause ritiene capaci di procurare un siffatto sconvolgimento; io descriverò come (la pestilenza) si sia manifestata, ed esporrò chiaramente quei sintomi”.
E di peste anche Virgilio narra nel terzo libro delle Georgiche descrive la peste del Norico (attuale Austria) nei versi 470- 566: Qui un tempo per infezione del cielo sorse una miseranda stagione, e arse per tutto il calore dell’autunno, e diede a morte ogni specie di animali e di fiere, inquinò i laghi, fece imputridire i pascoli.
Anche Boccaccio con il celebre Decameron (1470) racconta della peste che scoppiò in tutta Europa nel 1348. Questo evento fa da cornice per la sua raccolte di 100 novelle raccontando che pervenne la mortifera pestilenza, la quale “o per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’innumerabile quantità di viventi avendo private, senza ristare d’un luogo in un altro continuandosi, inverso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata“. LEGGI LA RECENSIONE DEL FILM DI PIER PAOLO PASOLINI
Non possiamo non evocare il flagello della peste anche con le parole di Alessandro Manzoni nella sua maestosa opera I promessi sposi (1827). “Era in quel giorno morta di peste, tra gli altri, un’intera famiglia. l’ora del maggior concorso, in mezzo alle carrozze, i cadaveri di quella famiglia furono, d’ordine della Sanità, condotti al cimitero suddetto, sur un carro, ignudi, affinché la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto della pestilenza“.
Una terribile epidemia si scatenò nel Nord Italia tra il 1630 e il 1631, decimando la popolazione e infuriando con particolare virulenza nella città di Milano, allora tra le più popolose della regione. Questo scenario viene descritto nelle pagine finali del romanzo, in particolare nei capp. XXXIXXXII interamente occupati da una digressione storica che ricostruisce la diffusione del morbo e le sue drammatiche conseguenze. La paura per il contagio che mieteva vittime sempre più numerose in città fece nascere nella moltitudine nuovi pregiudizi e iniziò così a diffondersi l’assurda credenza che alcuni uomini spargessero appositamente unguenti venefici per propagare la peste, personaggi immaginari noti col nome famigerato di untori: tale diceria non era alimentata solo dalla superstizione e dall’ignoranza popolare, ma trovava conferma anche nelle teorie di molti “dotti” del tempo e si rifaceva a fatti simili che, si narrava, erano avvenuti in altri paesi d’Europa in occasione di analoghe pestilenza.
Le epidemie nella letteratura contemporanea: oltre il Coronavirus
Da Manzoni arriviamo fino al 1947, anno in cui il premio Nobel (1957) Albert Camus scrive il romanzo La peste recentemente riedito da Bompiani (2017) con la traduzione di Yasmina Mélaouah. Lo scrittore francese immagina un’epidemia di peste bubbonica nella città di Orano, nell’Algeria ancora sotto il dominio francese. Il suo protagonista, il medico Bernard Rieux (l’io narrante), incarna l’ultimo baluardo dell’umanità, in una città che diventa la prigione dei suoi abitanti (molti critici hanno visto in lui anche l’emblema della resistenza contro il nazismo). La peste non rappresenterà solo un male biologico, ma una decadenza d’animo e metafora del Male, della seconda guerra mondiale e del Nazismo. Il microbo è cosa naturale, Il resto, la salute, l’integrità, la purezza, se lei vuole, sono un effetto della volontà e d’una volontà che non si deve mai fermare. L’uomo onesto, colui che non infetta quasi nessuno, è colui che ha distrazioni il meno possibile.
Dean Ray Koontz, lo scrittore americano noto per i suoi romanzi suspance thriller e i suoi molteplici pseudonomi che utilizzava per firmarsi, viene spesso citato oggi ai tempi del Coronavirus per il suo romanzo rivelatore The Eyes of Darkness (del 1981 e in stampa proprio in questi giorni da Fanucci Editore). Finora inedito in Italia, questo romanzo ha già venduto 4 milioni di copie. Sarà disponibile in Italia da venerdì 13 marzo. Dean Koontz nel suo romanzo “prevede” che nell’anno 2020 un virus denominato Wuhan 400, creato dall’uomo e sottratto a un laboratorio cinese, dilagherà nel mondo, provocando una gravissima polmonite.
Anche il maestro dell’orrore Stephen King con L’ombra dello scorpione (1987), il suo romanzo apocalittico, immagina una pandemia provocata da un virus – sfuggito anch’esso da un laboratorio – capace di infettare (e quindi uccidere) il 99,4 per cento della popolazione globale. Il romanzo di oltre 1.300 pagine nella sua versione integrale riflette sulla capacità dell’uomo di riscattarsi, e soprattutto di imparare dai propri errori. Quando si morde la mano che ti nutre – scrive King – bisogna aspettarsi che quella mano tesa si stringa in un pugno. L’ombra dello scorpione (The Stand) diventa una miniserie televisiva del 1994 diretta da Mick Garris e tratta dall’omonimo libro dello scrittore statunitense.
Una peste insolita e inusuale è quella invece di Cecità, romanzo di Josè Saramago del 1995, dove l’epidemia contagia gli occhi. La perdita della vista fa sprofondare nella cattiveria lasciando solo un istinto di sopravvivenza. L’uomo, secondo l’autore, sembra fatto di indifferenza ed egoismo. Saramago (morto nel 2010 a 88 anni) racconta, attraverso la metafora dell’incapacità di vedere, gli effetti di una epidemia nella società. L’epidemia è motivo di sciacallaggio, e il cibo diventa un’ossessione. Il romanzo è anche un feroce atto d’accusa contro la cecità degli uomini nei confronti dei grandi emergenze mondiali: È una vecchia abitudine dell’umanità passare accanto ai morti e non vederli. LEGGI LA RECENSIONE
Anche i lettori di David Quammen con l’opera recentissima Spillover (Adelphi, 2017) reagiranno in modo diverso alle scene che racconta seguendo da vicino i cacciatori di virus cui questo libro è dedicato, quindi entrerà con uno spirito diverso nelle grotte della Malesia sulle cui pareti vivono migliaia di pipistrelli, o nel folto della foresta pluviale del Congo, alla ricerca di rarissimi, e apparentemente inoffensivi, gorilla. Ma quando scoprirà che ciascuno di quegli animali, come i maiali, le zanzare o gli scimpanzé che si incontrano in altre pagine, può essere il vettore della prossima pandemia – di Nipah, Ebola, SARS, o di virus dormienti e ancora solo in parte conosciuti, che un piccolo spillover può trasmettere all’uomo. Le nuove malattie, come un virus a trasmissione aerea, volano di bocca in bocca nell’opinione pubblica.