Bruno Latour si presenta con un saggio riedito a Elèuthera nel 2018 con la prefazione di Giulio Giorello e la traduzione di Guido Lagomarsino e Carlo Milani.
Con Non siamo mai stati moderni il sociologo, antropologo e filosofo francese ci propone una definizione della modernità mostrando sia i numerosi luoghi di frattura e cedimento, sia la possibilità di ridiscuterne, ripartendo dalle grandi divisioni tra saperi e pratiche su cui essa si fonda.
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La trama
La lettura che Bruno Latour propone è quella di una profonda crisi della modernità che può essere compresa attraverso la strada del dibattito antropologico contemporaneo, stravolgendo l’inevitabile superiorità occidentale. Per Latour infatti hanno ragione i pellerossa dei western. La scienza, la tecnica e la democrazia di cui andiamo tutti orgogliosi, sono costruite da diversi rapporti di tensione separando quelli politici da quelli scientifici al punto da imporle agli altri, fondando sempre la forza sulla ragione e la ragione sulla forza.
Proprio nella prefazione di Giulio Giorello troviamo la riflessione su come in effetti, la società «moderna» non ha mai funzionato in modo coerente con la grande scissura su cui si fonda il suo sistema di rappresentazione del mondo, che oppone radicalmente natura e cultura. I cosiddetti «moderni» non hanno mai smesso di creare ibridi e tuttavia si rifiutano di prenderli in considerazione in quanto tali.
Non siamo mai stati davvero moderni, dunque, ed è proprio quel paradigma fondatore che va rimesso in discussione per capire il nostro mondo. “Noi, gli Occidentali, siamo assolutamente diversi dagli altri”: ecco il grido di vittoria o il lungo lamento dei moderni. La Grande Divisione tra Noi, gli Occidentali, e Loro, tutti gli altri, dai mari della Cina allo Yucatan, dagli Inuit ai Tasmaniani, continua a ossessionarci. Qualunque cosa facciano, spiega Latour, gli Occidentali si trascinano appresso la storia. Come mai l’Occidente si pensa così? Perché, unico, non sarebbe esclusivamente una cultura? Per comprendere la profondità di questa Grande Divisione tra Noi e Loro bisogna tornare a quell’altra tra umani e non umani, tra Natura e Società, tra cose della natura e relazioni sociali.
Se gli Occidentali non avessero fatto altro che commerciare e conquistare, che depredare e asservire, non si distinguerebbero radicalmente dagli altri mercanti e conquistatori, afferma nuovamente il filosofo francese. Ecco che di colpo ci si inventa la scienza, un’attività completamente distinta dalla conquista e dal commercio, dalla politica e dalla morale. La Grande Divisione interna spiega così quella esterna: noi siamo gli unici che fanno una distinzione assoluta tra la natura e la cultura, tra la scienza e la società, mentre tutti gli altri, che siano cinesi o amerindi, zandesi o baruyas, non possono separare davvero quello che è conoscenza da quello che è società, il segno dalla cosa, ciò che viene dalla natura così com’è da quello che richiedono le loro culture. Qualunque cosa facciano, per quanto adattabili, precisi, funzionali possano essere, resteranno sempre ciechi a causa di questa confusione, prigionieri del sociale come del linguaggio. Qualunque cosa facciamo noi – continua ancora Latour, –per quanto criminali, imperialisti si possa essere, riusciremo a evadere dalla prigione del sociale e del linguaggio e accedere alle cose stesse attraverso una provvidenziale scappatoia, quella della conoscenza scientifica. La divisione interna tra umani e non-umani ne ridefinisce una seconda, esterna, grazie alla quale i moderni diventano parte a sé stanti rispetto ai premoderni. Da Loro la natura e la società, i segni e le cose, sono quasi coestensivi. Da Noi nessuno può più mescolare le preoccupazioni sociali e l’accesso alle cose stesse. Così, se l’antropologia ritornasse dai tropici, ci spiega Latour, per poi ricongiungersi a quella del mondo moderno che la sta aspettando, lo fa in un primo tempo con circospezione, per non dire con titubanza. L’antropologia non si accontenta di studiare i margini delle altre culture, ma desidera entrare nel centro e ricostruire le diverse esistenze dei differenti sistemi di credenze, potere, economia.
Non siamo mai stati moderni, di Bruno Latour – La recensione
Nel saggio di Bruno Latour l’invito è proprio quello di saper guardare con gli stessi occhi entrambe le Grandi Divisioni e considerarle entrambe come una definizione particolare del nostro mondo e dei suoi rapporti con gli altri. Ora, queste Divisioni non definiscono noi meglio degli altri: non sono strumenti di conoscenza più di quanto lo siano la Costituzione […i principi fondamentali su cui si fonda la modernità…] da sola o la temporalità moderna da sola. Bisognerà aggirarle insieme, non credendo né alla distinzione radicale tra umani e non-umani da noi, né alla totale sovrapposizione del saperi e delle società tra gli altri.
La parola “moderno” per Latour racchiude due gruppi di pratiche completamente diverse che, per conservare la loro efficacia, devono restare distinte, però sembra che da qualche tempo avvenga il contrario. In altre parole la critica moderna depura ciò che la traduzione ha creato: le reti. Le reti sono i collegamenti, le mediazioni tra le aree ontologiche che considerano tutto ciò che non è solo cultura o solo natura: gli ibridi. Queste due attività vanno insieme – senza traduzione non ci sarebbe nulla da depurare –, ma la modernità si ostina a considerarle separatamente. Ogni cultura contiene tutte le altre culture in potenza, ponendo la questione del relativismo culturale, non come punto di arrivo, ma come punto di partenza. Latour ci pone di fronte ad un’imbarazzante condizione a cui siamo destinati a vivere, ossia quella di non essere mai stati moderni e la fiducia del progresso non resta che un’illusione.
Nonostante il nostro sguardo sia proiettato in direzione dell’avvenire, in realtà non siamo mai stati così attenti alla modernità, né tanto meno al passato considerato scomodo per poi ritrovarci di colpo immersi in un presente dove il tempo nega il passato e ci priva di una prospettiva “futuristica”. In altre parole con il suo saggio Latour ci spinge a riflettere sul nostro senso di avvenire che ci distingue dalla mescolanza barbara del passato, ma allo stesso tempo ci permette di scoprirci di fronte ad un fantasioso futuro utopico, ma senza la forza e il coraggio di posizionare lo sguardo verso una diversa prospettiva, ossia quella appunto dell’avvenire.
La nostra corsa verso il futuro invece si presenta come una fuga al contrario, verso l’indietro. Questo fallimento disvela le innumerevoli contraddizioni di una contemporaneità asimmetrica, dove cultura e natura, divengono anche esse, asimmetriche tra passato e futuro. La fine di un passato sorpassato non è altro che la proiezione di un futuro “futuribile” in cui siamo immersi, nel tentativo di ristabilire un’antropologia, forse diplomatica per Latour, e dove il postmodernismo non è altro che un’interessante sintomo di transizione. I moderni non sono mai stati contemporanei a se stessi e se si voltassero sarebbero obbligati a diventare finalmente “del loro tempo”, fuggendo a ritroso dal passato arcaico, il giovane gigante non può vedere nulla di quel che faceva. Proprio in questa trasformazione ricorsiva ed imprevista Latour osserva come i moderni non potrebbero più essere dipinti come giganti, ma piuttosto come nani, che hanno perso oltretutto anche il loro aspetto giovanile perché si scoprono terribilmente vecchi. E se avessimo sbagliato i tempi?
Bruno Latour
Casa editrice
Elèuthera
Anno
2018
Genere
saggistica
Formato
Brossura
Pagine
232
Traduzione
Carlo Milani
ISBN
9788833020297