Oggi vi presentiamo una pubblicazione di eum (Edizioni Università di Macerata): Agar prima l’occupazione / Agar dopo l’occupazione. Con la traduzione di Mariangela Masullo e testo originale a fronte, Amal-al-Juburi, poetessa ed intellettuale irachena compone un’opera che conquista due dimensioni temporali, il prima e il dopo, dove il durante è la transizione poetica pre-potente contro ogni sofferenza causata dall’occupazione e dalla guerra civile.
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La trama
Agar (in Ebraico הָגָר, Hāgar; in Arabo هاجر; “Straniera”) rappresenta una delle figure più controverse della Bibbia. La sua storia viene raccontata nel libro della Genesi rispettivamente nei capitoli sedici e ventuno Sara essendo sterile offre al marito Abramo, la propria schiava, una straniera di nome Agar, con l’obiettivo di adottarne il figlio al momento del parto. Infatti nel caso di sterilità della moglie ufficiale, il codice di Hammurabi (1700 a.C.) sancisce che in un contesto monogamico, come quello babilonese, la moglie poteva offrire al marito una schiava.
La schiava partoriva sulle ginocchia della padrona e così il bambino, simbolicamente, nasceva quasi dal grembo stesso della moglie. Da questa unione nascerà Ismaele: il progenitore degli Arabi. Poco tempo dopo arriva il figlio legittimo Isacco. Abramo, infatti, a causa della gelosia della moglie Sara, è costretto a spedire Agar e Ismaele nel deserto di Bersabea. L’otre d’acqua e il pane che Agar aveva ricevuto da Abramo sono finiti, i due sono stremati dal caldo, la mano terribile della morte sta per strangolare il ragazzo. La madre non ha il coraggio di vederlo morire sotto i suoi occhi, lo depone all’ombra di un cespuglio e si allontana dicendo: «Non voglio veder morire il fanciullo» Va più avanti e sente a distanza il lamento di Ismaele e allora si mette a piangere e a urlare. Nel silenzio del deserto nessuno può udire quel grido. C’è, però, un orecchio che raccoglie l’invocazione dei disperati ed è quello di Dio, il quale manda un suo messaggero, un angelo. Egli reca non solo una promessa divina: «Alzati, prendi il fanciullo per mano, perché io ne farò una grande nazione» Il figlio di Agar diverrà appunto il capostipite degli Arabi.
Indeciso tra paura e amore /Mi chiamava schiava / ma chiamava la mia rivale Signora / Il suo nome era marchio della mai sciagura / Il suo passato olocausto per le mie poesie / C’era una volta / mio marito prima dell’occupazione. L’opera viene scritta tra il 2003 e 2011 nel pieno dell’occupazione militare del Paese da parte delle forze armate americane e dalla guerra civile. Sono ventotto le coppie di poesie e quattro testi poetici autonomi scaraventano il lettore dentro e fuori, prima e dopo, tra la paura e il dolore dell’occupazione e la sofferenza atroce delle rovine sulla scia della devastazione, come se la polvere volesse sapere se la appartengo.
Agar prima l’occupazione / Agar dopo l’occupazione – La recensione
Le parole di Amal-al-Juburi tagliano ferocemente e fotografano l’angoscia nel mezzo presente, nel mentre del prima e nell’istante del dopo. Il tempo dell’attesa e il tempo della pre-tesa, tendono e pre-tendono di mescolarsi tra una grafia della e sulla vita della poetessa. Amal-al-Juburi conosce solo sua nonna, che ha il viso più in rovina di quello della sua città / E non vuole sapere altro. Il tempo della guerra, sepolta viva nella tomba dell’esilio, si fa tempo dell’attesa scandendo ciò che c’era prima e ciò che verrà dopo, incinta del salvatore in una provetta sterile.
La poesia vive nel “durante”, nella transizione dei sentimenti collettivi e autobiografici. La guerra conquista il soggetto nell’esilio della carne, mentre la poesia diviene soggetto agente sottraendone la sopravvivenza delle parole. Parole d’ordine contro parole di relazione, nell’atto linguistico sommerso dall’atto poetico, nella strategia della guerra, la poesia si fa tattica. È proprio la poesia che ci traghetta nella realtà di una città, Baghdad, la capitale dell’Iraq, luogo di nascita e dimora giovanile della poetessa, divenendo mappa “sentimentale” geografica, dove l’amato rifugio si trasforma in una scheggia tagliente dal sapore di guerra. Nella zona rossa frammentata non c’è più speranza, solo paura di perdere i tratti delle mie labbra / assenti nella tua bocca morte.
Nello stesso tempo si sognava solo di respirare polvere d’infanzia / sognava solo di coprire l’oltraggio della morte. Il rimorso cresce, si rinnova, non invecchia, divorati dalla solitudine (prima dell’occupazione) saccheggiata al mercato delle coscienze dove i corpi divengono prede nel ventre di una luce agonizzante. Parole ai tuoi giorni sconosciute. La libertà di Amal-al-Juburi è orfana, è caduta ogni maschera mentre Agar cerca il suo antico volto […] lascia la sua vita per ciò che chiama patria e gli altri chiamano sogno impossibile.
Agar si fa poesia femminile – gravida di ricordi e creatrice di racconti – incolla e gela la natura del cuore sofferente, ostaggio del sole. Agar è collante di parole e sacrifici, mentre Ismaele è orecchio del tempo del prima e del dopo, un ascolto dis-occupato. Così Ismaele, nel Moby Dick melvilliano si salva, aggrappandosi alla bara-scialuppa dell’amico Queequeg, come un Giona risalito dall’abisso con il dovere di predicare la verità. Riemerge dalle profondità dopo il naufragio, l’unico superstite dopo l’occupazione, Agar, divenuta libera, tra poesia e rimpianto, tra prima e dopo, tra occupazione e protesta.
Amal al-Juburi
Casa editrice
EUM
Anno
2020
Genere
saggistica
Formato
Brossura
Pagine
199
Traduzione
Mariangela Masullo
ISBN
978-88-6056-6