Questa intervista a Francesca Mannocchi arriva a poche settimane dall’uscita del suo ultimo romanzo, Bianco è il colore del danno (Einaudi). Il racconto intimo e personale del percorso che l’autrice ha intrapreso dopo la diagnosi di sclerosi multipla. Non solo quindi la cronaca degli eventi, ma pensieri, paure, dubbi, sensazioni e ricordi. Il libro è stato proposto per il Premio Strega 2021 da Gli Amici della domenica.
Abbiamo quindi voluto scoprire cosa vuol dire attraversare ogni giorno una condizione nuova, capire il legame tra malattia, tempo e vergogna. L’intervista a Francesca Mannocchi è un vero e proprio sentiero tra ricordi e futuro.
SCOPRI IL NOSTRO SHOP ONLINE CON TANTI PRODOTTI DEDICATI AI ROMANZI PIU’ FAMOSI
Intervista a Francesca Mannocchi: una condizione nuova
Francesca Mannocchi, hai scritto un libro che non è solo la cronaca del rapporto di una donna con la propria malattia, ma una storia che parla di una “condizione nuova”. Quando e come hai scoperto di dover affrontare questa nuova condizione?
Questa domanda ha due risposte. La prima è una risposta che coincide con un periodo di tempo che posso segnare rosso sul calendario, il tempo che intercorre tra la manifestazione dei primi sintomi e il giorno in cui ho avuto una vera diagnosi, cioè il giorno in cui la malattia ha avuto un nome proprio.
La seconda risposta è più complessa: ogni giorno è la scoperta di una condizione nuova, perché la convivenza con una malattia in generale ed in particolare con una malattia cronica è il continuo scovare un tempo inedito, che si allarga e si stringe, proprio come si allargano e si stringono le paure.
Ogni giorno scopro un frammento di una Francesca diversa, in divenire. E ogni giorno devo fare spazio ad un’emozione ignota.
Nel libro associ spesso il termine malattia a parole come danno, identità, cattiveria. Cosa vuol dire per te essere nella condizione di “malata”? Cosa delimita realmente il confine tra sano e malato? E cosa vuol dire, soprattutto, affrontare una malattia cronica?
Cosa vuol dire essere nella condizione di persona malata lo sto scoprendo, quindi non so darti, oggi, una risposta definitiva. Posso dirti, in relazione alle parole che associo alla malattia nel Bianco, che facciano più capo alla letteratura che alla malattia stessa. La malattia è ingiusta. Nessuno di noi vorrebbe avere un imprevisto di questo genere, come non lo vorrebbe avere nella vita delle persone che ama. L’ingiustizia fa sì che la vita si sposti dal tepore domestico – o nomade nel mio caso – in cui l’avevamo pensata, alle montagne russe: vivi picchi di tenace sopportazione e picchi di profonda depressione.
Perché – mi ripeto – l’imprevisto, la malattia, è ingiusta e chi la subisce, giustamente, prima di tutto pensa di non meritarla. Poi pensa di non essere in grado di gestirla.
A volte le parole per descrivere queste emozioni possono sembrare, o essere, crudeli. Ma per me la parola o è (anche) crudele, o non è.
Nel momento di scrivere questo libro mi sono detta che le parole che ero chiamata ad usare fossero le stesse che braccavano le mie notti, che sono parole spesso feroci, perché la rabbia che talvolta vivo lo è, come lo è la mia preoccupazione e quella di chi mi ama.
Quello che delimita il confine tra il sano e il malato è che la persona che riceve la diagnosi di una malattia ha un altro senso del tempo, perché tutti sappiamo di essere nati in un corpo che avrà una fine, ma è un pensiero che allontaniamo, che riduciamo ad un ronzio. La persona malata questo ronzio lo sente forte e chiaro, come un suono ridondante di cui può decifrare tutti i decibel.
Questo credo ci renda molto più intransigenti sullo spreco del tempo e delle energie, dei sentimenti e anche, sì, delle parole.
LEGGI ANCHE – BIANCO E’ IL COLORE DEL DANNO. LA RECENSIONE
Il tempo, la maternità e la vergogna
Nel libro dici spesso che il tempo non ti appartiene più da quando hai scoperto la malattia. Spiegaci meglio questo concetto.
Il tempo contestualmente non ti appartiene più ma prende la dimensione dell’urgenza. Diventa un intervallo tra cose di cui il tuo corpo ha bisogno: analisi, lastre, risonanze, terapie, effetti collaterali delle medicine. Il calendario cambia aspetto. Il giorno della mia iniezione per me non è mercoledì, giovedì o sabato, ma è il giorno della terapia, e i giorni che seguono l’iniezione per me sono i giorni in cui fatico a fare qualsiasi cosa, in cui posso avere la febbre alta e devo dunque aspettare che passi.
Su questo tempo non ho controllo e non ho potere, dunque ne subisco il trascorrere, più che viverlo.
Contemporaneamente, però, questa assenza di controllo sul mio tempo fa sì che io straviva quello che resta, il tempo buono chiamiamolo così, perché vedo, sento, e vivo l’idea che non lo posso sprecare.
Nel tuo racconto la malattia va di pari passo con la maternità. Come ed in che modo le due cose si intersecano, si mescolano, si uniscono o si combattono?
Questi due eventi che in modi diversi hanno cambiato la mia vita si sono verificati a distanza di pochissimo tempo. Quindi li racconto come una cronaca di una coincidenza che ha assunto per me un portato simbolico.
Siccome della mia malattia non si conoscono le cause, il percorso che ho fatto è stato, prima ancora che letterario, emotivo. E’ stato uno scavo nelle impalcature e nei significati che gli eventi che racconto – apparentemente insignificanti – hanno avuto nella mia vita.
La coincidenza di questi eventi, la diagnosi e la maternità, hanno maturato in me analisi simili sul tema del controllo. E dell’autocontrollo. In una malattia cronica perdi il controllo sul tuo tempo, e nella maternità metti al mondo l’essere che più amerai, ma sul quale non hai, appunto, alcun controllo.
Né sui suoi pensieri, né sul suo corpo, né sull’imprevisto che può colpirlo. Queste due assenze di dominio, per una persona come me che è abituata a non concedersi il minimo errore, hanno delle somiglianze.
Mi hanno fatto pensare che forse questo fosse il tema, la grande matrice che giace sotto i mesi che hanno preceduto l’insorgere della mia malattia. Il medico mi ha detto che la malattia giaceva dentro di me come sopita. I sintomi potevano non svegliarsi mai, o svegliarsi dopo un evento deflagrante che per qualcuno è uno choc, per altri una tesi di laurea, per altri un lutto o la fine di una storia d’amore. Per me la coincidenza cade con la gioia più grande della mia vita, mio figlio.
Ma appunto, ripeto, sottolineo e ribadisco che non ci sia un rapporto causale tra i due eventi.
E malattia e vergogna invece come sono legate tra loro?
Sono legate tra loro perché, se ci fai caso, quando pensiamo alla parola malato usiamo istintivamente l’ausiliare essere. Diciamo “sei malato” e non “hai una malattia”. L’utilizzo di questo ausiliare in qualche modo induce a identificare la persona malata con la sua patologia.
E’ per me un grande tema di riflessione, perché se tu vieni visto dagli altri come persona che vive in uno stato di minorità tenderai (se non hai gli strumenti adatti) a pensare che quello stato di minorità ti corrisponda, e che tu quindi sia bisognoso di cure, di compatimento e, talvolta perché no?, di pietà. E che in qualche modo meriti questo accudimento. Questo ragionamento si è collegato anche a qualcosa di più materiale come l’accesso alle cure, alla tutela della sanità pubblica e alle differenze di gestione dello spazio ospedaliero che c’è tra chi è convenzionato (come i malati cronici) e chi invece paga le cure di cui ha bisogno. A volte lo spazio ospedaliero, quando è privato, può anche diventare uno spazio di mortificazione e quindi di vergogna.
Malattia, memoria e letteratura
In questi anni hai iniziato un percorso di recupero dei ricordi e delle tue radici. Perché hai sentito questa esigenza e che rapporto c’è tra malattia e memoria?
Ho iniziato questo percorso di recupero dei ricordi perché quando la medicina non sa ancora darti delle risposte, hai bisogno di trovarle da qualche altra parte, hai bisogno di trovare dei dettagli, delle fratture, dei momenti che ti aiutino a fare un percorso a ritroso nell’unico archivio che hai, cioè il tuo corpo e la tua memoria. Ho cominciato a riannodare i fili della storia ordinaria di una famiglia in cui purtroppo la presenza di mali cronici è stata costante. Lo è stata nella vita di mia madre, di mia nonna. Ho cercato di sentirmi un pezzo di quel percorso, ma anche un pezzetto della soluzione alle domande che questo percorso aveva generato.
Memoria e letteratura hanno quindi avuto una funzione salvifica per te in un certo modo?
Memoria e letteratura hanno avuto, per me, una funzione di mantenimento. La letteratura mi ha consentito di attraversare un episodio che ha cambiato la mia vita e renderlo una storia non più mia, ma una storia che nel momento in cui l’ho scritta diventava un romanzo, una storia di tutti. Attraverso questo romanzo, e quindi attraverso la letteratura, ho nominato e dunque neutralizzato dei temi che nella mia biografia erano sospesi.
Francesca Mannocchi tra presente e futuro
Dicono che esistono cinque fasi per attraversare un dolore: rifiuto, rabbia, trattativa, depressione e accettazione. Tu in che fasi pensi di essere? E come sono state le altre?
Penso di aver accettato la presenza della malattia nella mia vita. Ma penso tuttavia che siccome non l’ho invitata, ciò che posso fare è farle spazio ma farla stare scomoda.
Francesca, se Bianco è il colore del danno, che colore ha il futuro?
Il bianco è anche il colore del futuro. Il bianco è una contraddizione. Un colore che istintivamente ci suggerisce purezza ma che contiene tutti i colori dello spettro cromatico, compreso il nero. Quindi il bianco non risolve una contraddizione ma la abita, ed è la condizione che io voglio, diciamo vorrei, attraversare ogni giorno: non risolvere le contraddizioni ma viverle. Quindi direi che, sì, il bianco sia il colore del mio presente e del mio futuro.