Antonella Lattanzi è tornata in libreria ad inizio del 2021 con Questo giorno che incombe (Harper Collins Italia), candidato anche al Premio Strega 2021 tra le 62 proposte degli Amici della domenica.
Una storia che si muove tra più generi e più stili, per raccontare le paure, i dubbi e le angosce di una donna alle prese con una crisi personale e familiare e con un evento che romperà ogni equilibrio. In questa intervista ad Antonella Lattanzi abbiamo cercato di scavare tra le righe del suo romanzo per sapere un po’ di più della sua storia, delle sue passioni e del suo modo di scrivere.
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Antonella Lattanzi e Questo giorno che incombe: tra romanzo e realtà
Antonella Lattanzi, con Questo giorno che incombe hai scritto un libro che guarda molto alla realtà, come tra l’altro hai ammesso tu nella prefazione. Puoi spiegarci meglio da dove nasce questa storia?
Quando ero molto piccola, i miei genitori si sono trasferiti in un condominio della periferia barese che per certi versi ricorda quello raccontato in Questo giorno che incombe. Il nostro condominio era meno attrezzato, meno brillante, ma aveva un cortile dove i bambini giocavano ed era per lo più abitato da famiglie giovani. Ma i miei genitori non sapevano che, in quel condominio, era appena successo qualcosa di tragico: era scomparsa una bambina, sotto gli occhi di tutti.
I nostri genitori non ci hanno raccontato questa storia per anni, per non farci spaventare. Poi, un giorno, mio padre mi ha detto quello che era accaduto. E allora ho pensato che quella storia la volevo scrivere. Ma non così com’era successa nella realtà. Volevo inventare dei personaggi che abitavano un condominio. Volevo cambiare città, forse. Ma, mi serviva tempo. Tempo per capire davvero cosa era successo. Tempo per capire quanto questa storia aveva a che fare con me, con la mia infanzia, con la mia educazione. Dopo quella scomparsa, anche i miei genitori non erano mai più stati gli stessi. Quando ero piccola non sapevo perché. Quando l’ho saputo, ho avuto bisogno di tempo per trovare il mio ingresso in questa storia. Sono passati tanti anni e tanti libri prima che avessi il coraggio di affrontarla.
Credi che l’urgenza di raccontare storie sia elemento imprescindibile per ogni scrittore/scrittrice? E quanto ha contato, in questo caso, la necessità di rimettere insieme alcuni pezzi del passato?
Il passato cerchiamo in tutti i modi, sempre, di rimetterlo insieme. Perché ci faccia meno male. La scrittura non parte, non può partire solo da quello. Altrimenti sarebbe ombelicale. Ma certamente scrivendo una storia come questa ho dovuto scoperchiare delle botole che avevo chiuso a chiave nella mia testa perché non mi riportassero i ricordi che non volevo ricordare. Però poi scrivere trasfigurando la realtà – per ora non ho mai raccontato storie autobiografiche – da un lato ti costringe a denudarti, a rivelarti le bugie che ti dici ogni giorno per rimanere vivo, per perdonarti, dall’altro ti consente di liberare quello che hai scoperto e dargli un altro volto, un altro tempo, un’altra dimensione. Per questo amo la fantasia, l’invenzione.
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La difficoltà di essere donna
Siamo spettatori della storia attraverso gli occhi di Francesca. Da dove nasce il suo sentirsi “imprigionata” nella nuova casa e nel suo matrimonio? Cosa la porta a “rompere” con la quotidianità ancor prima dell’evento scatenante?
Prima di trasferirsi nella sua nuova casa, Francesca era una donna felice. O almeno credeva di esserlo. Aveva un marito che amava, un lavoro che amava, due figlie che amava. Credeva di non avere ombre. In questa casa – che lei credeva sarebbe stato il suo paradiso – tutto l’oscuro si rivela. Francesca non conosce nessuno a Roma – viene da Milano –, è rinchiusa in questo quartiere residenziale lontano dal centro e lontano dal mare, da cui non può uscire. Non riesce a fare amicizia con gli altri inquilini, che le appaiano presto sinistri: quasi una setta. Non riesce a lavorare alle illustrazioni del suo libro per bambini (per lei il lavoro è fondamentale, è la sua passione e la sua forza) perché comincia a sgretolarsi. Ha la testa piena di nero. Si ripete: il buio o ce l’hai dentro da sempre o non ce l’hai più. Lei pensava di non averlo, invece adesso la sta divorando. È prigioniera della casa, ridotta da persona a una sola funzione: quella di madre. Le sue bambine pretendono tutta la sua forza, la sua attenzione, il suo amore, tutto il suo corpo. Comincia ad avere dei vuoti di memoria. Comincia a odiare le sue figlie. Comincia ad aver paura di far loro del male. Perché è sola. Sta crollando. E nessuno viene in suo aiuto.
Questo giorno che incombe è anche un libro sulla maternità e sulle difficoltà dell’essere donna? Francesca, cioè, rappresenta a tuo avviso molte delle situazioni “invisibili” nella società di oggi?
Come ho raccontato sopra, sì. Cioè: quando scrivo non penso a cosa i miei personaggi rappresenteranno. Scrivo quel personaggio, quella piccola storia: è tutto lì. Però dopo aver scritto sì, ci penso: io ho trovato tanto conforto in alcuni romanzi che mi parlavano delle mie debolezze, perché riuscivano a non farmi più sentire sbagliata, sola. Mi piacerebbe che lo stesso succedesse a una donna che legge il mio libro mentre si sente in difficoltà. Mentre non si sente una buona madre. Mentre si sente sola.
Certamente, ancora, nella nostra società alla donna viene chiesto spesso di scegliere: vuoi essere una persona, o vuoi essere una madre? Questo è orribile.
Il potere di scrivere e la distanza con il passato
Nel libro si parla di paure, di angosce, di pregiudizi. Quanto hanno contato nel tuo passato queste parole e quanto pesano ancora sulla tua vita di scrittrice?
L’angoscia – o meglio l’ansia – è la mia migliore amica. Non mi lascia mai. Il mio compagno mi dice sempre: il peggior nemico di te stessa sei tu. La paura è un effetto dell’ansia, ma può essere anche un motore per trovare le forze dentro di te, forze che non pensavi di avere. Io non voglio più aver paura: quindi, quando ho paura, mi butto. Adoro le sfide. Mi fanno sentire viva.
I pregiudizi sono ovunque, e in questo libro ho cercato di raccontarli: ho cercato di raccontare il sospetto che può diventare un’arma letale se un gruppo di persone che vivono di pregiudizi si scagliano contro qualcuno che reputano diverso da loro.
Tutto ciò, l’angoscia, la paura, la forza vitale che viene dai momenti difficili – Francesca scopre la vera libertà proprio quando si ribella alla vita che lei stessa ha costruito perché pensava che fosse giusto così –, i pregiudizi: tutto passa nei libri. I libri sono come la vita: hanno dentro tante cose che sai da dove vengono e tantissime che non sai dove hai trovato, da dove arrivano, ma le racconti, e di colpo sono lì.
Questo romanzo mescola più stili e situazioni narrative: la storia d’amore, il thriller, persino dei tratti di reportage e di cronaca. Che schema narrativo hai utilizzato per prendere e modellare un fatto reale? E poi ti chiedo, è la narrazione ad essere al servizio di quell’evento, o è il fatto stesso a doversi inchinare all’aspetto narrativo?
Non mi interessa mai il genere dei libri che leggo. Leggo romanzi molto diversi tra loro – pura narrativa, classici, noir, horror e così via – ma a ben guardare ai romanzi che amo di più non saprei attribuire un solo genere.
Scrivendo, non ho pensato a nessun genere. Ho pensato alla storia che volevo raccontare – una storia, come dici tu, fatta di tanti generi e tanti aspetti diversi – e allo stile e al punto di vista che volevo adoperare.
Quindi ho lavorato molto sulla scaletta preparatoria prima di iniziare a scrivere, sugli schemi, sulle svolte, sui colpi di scena e via dicendo: trattandosi anche di un thriller psicologico dovevo sapere tutto, o quasi, prima di iniziare. Ma poi, una volta finito questo lavoro preparatorio, mi sono fatta guidare dallo stile, dalla lingua, dal punto di vista.
Credo che siano questi ultimi aspetti a rendere un romanzo un buon romanzo. Credo che la potenza di un romanzo stia, in larga parte, nello sforzo – che deve essere però invisibile – di rendere lo stile, la lingua, personaggi.
Che importanza ha la letteratura nel rapporto con la memoria? E Antonella Lattanzi è riuscita a trovare la giusta distanza con il suo passato?
Rispondo prima alla seconda domanda: naturalmente no. È una battaglia, credo, di ogni giorno. Esorcizzare il passato. Non farsi schiacciare dal passato. Più che trovare la giusta distanza assoluta una volta per tutte, si può cercare di allontanarsi dal passato ogni giorno.
La memoria ha certamente a che fare con la letteratura. A volte in modo esplicito – penso per esempio al magnifico Una questione privata di Beppe Fenoglio, o La porta di Magda Szabò, che adoro – a volte in modo subdolo. Per scrivere, devi sempre metterti in contatto con tutto ciò che hai vissuto e provato; anche quando, come nel mio caso, non scrivi storie autobiografiche. Forse, anzi, ancora di più in questi casi. Quando leggi, è un continuo scambio tra il libro e te, tra il libro e la tua memoria.
E poi ci sono i libri scritti per non dimenticare fatti orribili che sono successi. Se questo è un uomo di Primo Levi, per esempio. O Christiane F. Libri per dire: non dimenticateci.