Un uomo, una donna. E se il titolo del libro è Un amore, cos’altro potrebbe aspettarsi lo sprovveduto lettore che si accosta a quello che fu definito l’unico romanzo erotico di Buzzati? Il primo impatto tra aspettative e realtà si ha fin dalle prime pagine del libro: il sipario si apre su una Milano invernale, grigia, in una «mattina qualsiasi di un giorno qualsiasi». O almeno questo è ciò che l’autore vuol farci credere: dopo poche righe, tutti gli elementi forniti lasciano intuire che qualcosa invece cambierà per sempre, quel martedì 9 febbraio 1960.
Il quarantanovenne architetto Antonio Dorigo si trova nel suo ufficio: tra una sigaretta e l’altra, organizza il pomeriggio attraverso una telefonata (la prima di una lunga serie). Dorigo è «un borghese nel pieno della vita, intelligente, corrotto, ricco e fortunato», ma è anche un uomo insicuro nelle relazioni con le donne. In quell’ambito diventa «uno qualunque […], non riusciva a concedersi completamente, eppure come egli avrebbe desiderato invece abbandonarsi senza riserve gioiosamente come un bambino nell’entusiasmo del gioco».
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Dino Buzzati: un autore che sfugge alle etichette
Dino Buzzati (1906-1972), già autore di Barnabo delle montagne (1933), Il segreto del Bosco Vecchio (1935), Il deserto dei Tartari (1945) e i Sessanta racconti (1958), pubblicò con Mondadori il romanzo Un amore nel 1963. Buzzati non fu mai particolarmente amato dalla critica italiana, un po’ per il suo carattere schivo, un po’ forse per via del suo eclettismo: nato in una famiglia nobile per parte di madre, fin da subito mostrò interesse per la poesia e il disegno (oltre che per la montagna, elemento centrale in tutta la sua produzione).
Giornalista professionista di lungo corso (sua è la Cronaca di ore memorabili in prima pagina sul Corriere della Sera del 25 aprile 1945, giorno della Liberazione), scrisse romanzi, racconti, poesie e si dedicò al teatro e alla creazione di libretti per musica.
Erroneamente considerato il Kafka italiano (parallelismo che lui mai accetterà), Buzzati fu il giornalista di cronaca nera, l’inviato di guerra o al Giro d’Italia, lo scrittore con un linguaggio accessibile anche ai bambini, il disegnatore di lavori come Poema a fumetti (1969) oppure l’artista che esponeva i suoi quadri alla Galleria Lo Spazio di Roma.
Buzzati è tutto questo messo insieme. È doppio, è multiplo, sfugge alle etichette che tanto piacciono a un certo modo nostrano di vedere l’arte, per cui non si può essere tutto.
I protagonisti di Un amore
Antonio Dorigo, in un certo senso, rispecchia questa natura sfuggente, in ogni caso doppia. Il suo alter ego si mostra solo alle donne: la signora Ermelina, che gestisce «ragazzine-squillo, rozze principianti al paragone delle esperte professioniste, rotte alle più depravate fantasie. In compenso, però, c’era il mistero»; le prostitute che conosce e con cui conversa; e infine lei, la disinibita Laide (il cui vero nome si scoprirà solo a metà libro).
La giovane protagonista femminile di Un amore è un mistero nel mistero, un abbaglio, una visione che Dorigo ha e che irrompe nella sua vita di professionista inappuntabile, fino ad arrivare nel suo ufficio, fino ad arrivare più stabilmente nel suo letto. È questo (purtroppo, verrebbe da dire) l’amore di cui parla il libro. Un non amore, un’ossessione unilaterale, maniacale, verso una (forse) diciottenne di cui conosciamo prima i dettagli anatomici e poi, gradualmente, tutto il resto, anche se mai fino in fondo. Laide è ballerina alla Scala ma anche al Due, locale notturno di dubbio gusto: d’altra parte, «la danza – scoprì Dorigo – non era altro che uno sfogo lirico del sesso». Anche Laide, figura in un certo senso speculare a Dorigo, rappresenta il doppio: lei e le altre ragazzette «partecipavano del mondo delle famiglie oneste e normali e insieme della malavita, frequentavano i più ricchi figli di famiglia […] illudendosi di appartenere alla loro società ma in realtà adoperate da questi signori come puro strumento di svago e di libidine e perciò totalmente disprezzate». Laide incarna anche la Milano degli anni Sessanta: «dura, decisa, presuntuosa, sfacciatamente orgogliosa, insolente […] all’ombra tetra dei condomini, fra le muraglie di cemento e di gesso, nella frenetica desolazione, una specie di fiore».
Quello che è stato bollato come romanzo “di cassetta” (scritto per vendere, diremmo noi oggi), muta d’aspetto man mano che le pagine scorrono, fino a diventare quasi un giallo. E in effetti, a un certo punto, compare anche Imbriani, il detective privato, ma solo per un attimo, in un marasma sempre più convulso di pensieri, sogni, ipotesi, voci, testimonianze, avvistamenti, frammenti di un puzzle difficile da ricomporre. Come un burattinaio, Buzzati muove abilmente i fili dei personaggi. La scrittura non sempre segue un percorso lineare: da cronachistica diventa dialogica, plateale, declamata, quasi teatrale o filmica; talvolta incalza, prende i tratti dello stato d’animo di Dorigo, creando momenti di attesa spasmodica e riportando sotto forma di flusso di coscienza i pensieri ossessivi e ricorrenti del protagonista – non di rado, il climax viene raggiunto con l’affastellarsi degli stati ansiosi di Dorigo e poi spento da poche parole secche della diretta “indagata”. Le parole esprimono anche contrasti inusuali: le frequenti immagini infantili vengono accostate alla vita dissoluta dei due. Il termine bambino spunta in più parti del libro e non si può non restare colpiti dal parallelismo tra letto e gioco: il letto per Laide (lei sì bambina, almeno anagraficamente) è «come un grande giocattolo». E ancora: «per i bambini il sottocoperta del letto non rappresenta forse un mondo misterioso e affascinante, una caverna immensa dove non si sa che cosa ci sia»? Anche Dorigo si fa esplicitamente bambino, smarrito «nel buio della selva», a cinquant’anni. Di nuovo, la specularità con il suo contraltare femminile.
Sorge il dubbio, a un certo punto, che Buzzati stesso stia giocando con i lettori: lo scrittore diventa la nostra Laide, noi siamo i suoi Dorigo e, con lui, veniamo portati a spasso tra stazioni, alberghi, ospedali, soprannomi, telefonate, assenze e ritorni, in un vorticoso gioco del gatto col topo o del predatore che con l’inganno (i soldi) agguanta la preda, a sua volta predatrice. Un’unica certezza però c’è: la realtà non è quella che ci viene rappresentata. C’è un mondo sotterraneo, nascosto, probabilmente poco accattivante e, sembrerebbe, foriero di morte che si muove dietro le belle facciate borghesi, nel grigio di mattine qualsiasi di un giorno qualsiasi.